venerdì 7 dicembre 2018

Giornata relax e tramonto spettacolare prima di scontrarsi con la nuova Thailandia



02/12/2018
Mi sveglio dopo una bella dormita scoprendo che, per una volta, il display del telefono non segna le 6, come primo numero, ma bensì le 9! Non che mi abbia pesato in questi due mesi, anzi, le giornate a Taiwan non bastavano mai, quelle in Vietnam si sono rivelate da subito lunghissime e mi hanno permesso di fare e vedere tantissime cose, qui in Cambogia, che fa più caldo, ma un bel caldo secco, ci si può permettere di poltrire un po’ oggi, che tanto il più è fatto! Alla fine ho comprato un volo per Bangkok, perché di passare un’altra frontiera via terra e prolungare la già enorme quantità di ore del viaggio più del dovuto non mi allettava.


Così molto pigramente io e Ariel andiamo  a fare colazione in una scuola di pasticceria speciale, dove vengono accolte e istruite ragazze con storie difficili. Il posto è un po’ inculatiello, ma grazie a questo può godere di un bel patio silenzioso all’ombra degli alberi. Nella vetrina sono esposti dolci d’ispirazione occidentale, rivisitati con prodotti locali come il cocco, il mango, e il dragon eye, una specie di litchi dal guscio liscio, molto più saporito e con un nocciolino piccolo e lucido che sarebbe l’occhio del drago. Ordino anche un caffè freddo, io che non ne bevo mai, ma che mi sono innamorata di quelli assaggiati in Vietnam, qui purtroppo non rimango soddisfatta, ma solo adrenalinica tutto il giorno.


Quando arrivano le 16, ci mettiamo nell’ottica di andare a vedere un piccolo tempio saltato ieri per la stanchezza, che nasconde all’interno delle sue torri dei bellissimi bassorilievi molto ben conservati, ma il MUST della giornata è scoprire se ho ragione, a pensare che il tramonto sulle acque a ridosso del Neak Pean, sará strepitoso. C’è poco margine di errore secondo me: una lunga passerella di legno attraversa un corso d’acqua statico da cui spuntano alberi spogli e tronchi. La vista è aperta per molte centinaia di metri nelle due direzioni, perciò ho ragione di credere che ci regalerà splendidi giochi di luce e ombre. L’unico inconveniente è che il sito, siccome non è contemplato come luogo papabile per il tramonto, chiude alle 17:30.


Quando arriviamo noi, la poca gente che è rimasta sta già sciamando e rimaniamo in meno di una decina seduti sulla passerella con i piedi a penzoloni, facendoci accecare dal sole che piano piano si tuffa nell’acqua. Lo spettacolo è stupendo, il cielo e il fiume assumono colorazioni assurde, dorate, infuocate, ad un certo punto il sole si incastra tra i rami di un albero secco che spunta dall’acqua. Il nostro nuovo Tuk Tuk driver di oggi, che è molto simpatico, aspetta insieme a noi per godersi lo spettacolo. Dal fondo, con passo rango si avvicina il guardiano del sito per farci sloggiare, è serio e inflessibile! Gli chiedo ancora 5 minuti, risponde secco no, ma poi scatto e gli faccio vedere la foto sul display, il viso si ammorbidisce, rapito dalla bellezza dell’immagine, mi concede ncora di stare finché il sole non sparisce dentro l’acqua, poi torna imperioso e abbandoniamo il campo.


 Nel viaggio di ritorno cantiamo e il driver si gira a guardarci divertito. Consumiamo la nostra ultima cena insieme  e poi ci abbracciamo prima di fare ritorno nelle rispettive camere, mi viene quasi la lacrimuccia, perche questa è davvero l’ultima volta che ci incontreremo, almeno in questo viaggio. L’indomani alle 6:30 sono già pronta a salire sull’ennesimo Tuk Tuk, diretta all’aereoporto per il volo che mi porterà in Thailandia, a Bangkok in meno di 50 minuti. È presto, sono stanca, ho dormito ad intermittenza e sono la prima della fila del check in. Subito dopo di me arriva un inglese con i denti in putrescenza ed evidenti segni di psoriasi o malattie affini su entrambe le mani, gomiti e collo. Mi parla, ma un po’ perché è mattina e sono stanca, un po’ perché l’accento di Londra è veramente ostico, capisco una parola su tre, per il resto interpreto e cerco di non fare la faccia stupida di quella che non afferra il concetto. Praticamente mi racconta che viaggia per lavoro, non so bene cosa consegna nelle mani di chi, ma il punto è che mi mostra un sacco di timbri di entrata e uscita sul passaporto, spesso ad un solo giorno di distanza uno dall’altro. Però lui dice che non è male..
Per due file non siamo seduti vicini, segno che ogni tanto la provvidenza intercede, ma comunque fa tempo a localizzarmi prima dell’imbarco, dopo l’atterraggio e fino a quando le nostre strade si dividono: la mia porta al recupero bagagli, la sua alla connessione con il prossimo volo. Nella foga di liberarmi di lui gli stringo la mano, per poi chiedermi se fosse per caso contagioso!
E comunque sono in Thailandia, quarto paese di questo viaggio che sta per concludersi, ma che, se tutto va bene, riprenderò a Gennaio di nuovo da qui! La prima cosa che salta agli occhi è che fa caldo, troppo caldo, il più caldo di tutti i caldi, non piacevole come il Vietnam, non secco come la Cambogia, ma torrido come la Thailandia!


E già mi sento l’influenza per la troppa aria condizionata.
Fortunatamente il percorso dall’aereoporto al mio ostello è tutto all’interno di stazioni di metro, quindi per il 95% del tragitto sono al fresco. Ma l’ultimo 5%...ovvero gli ultimi 500 metri a piedi sono un massacro. L’ostello però è bello, tranquillo e siamo in due in una stanza da 6..l’altra è cinese e non esce mai dal letto, una sorta di mummia, quindi una compagna perfetta. Mi accomodo nel mio letto, indecisa se abbandonarlo subito per la prima di una lunga serie di sudate o se decidere di barricarmi anch’io tra le lenzuola per i prossimi tre giorni. Poi decido di uscire.


Cammino fino al molo 4 da cui prendo un battello che mi porta sulla sponda destra del fiume Chao Phraya, mi dicono che farò il biglietto a bordo ma la signora col cilindretto in acciaio con le monete da me non ci viene, quindi brusisco che la Thailandia mi sta dando il benvenuto. Mi trovo davanti il Wat Arun, un bellissimo complesso di Templi buddhisti riccamente decorato con ceramiche cinesi e da animali mitologici, purtroppo il mio abbigliamento non è considerato consono e quindi non posso visitare il Prang principale, ma mi accontento di vedere tutto il resto.


Quando poi ritorno sul molo per riprendere il battello, vengo assalita in malo modo da un cafonissimo  della compagnia di navigazione più cara, che mi accusa di voler salire sull’imbarcazione senza biglietto. Io provo a spiegargli che mi hanno detto che si paga a bordo, ma lui strepita che sono una bugiarda, gli chiedo allora con altrettanto calore dove fare il biglietto e mi manda dalla sua bigliettaia, una grassa antipatica scorbutica che quando gli nomino il molo 4 mi dice di no e indica col braccio in direzione del molo, interdetta cerco di capirci qualcosa e torno sulla banchina.


Dopo ritorna lui, il cafonazzo a urlarmi ancora dietro, perdo le staffe e urlo più di loro, lui è quella cretina della sua bigliettaia che ora nega che gli abbia chiesto di fare il biglietto, altri stranieri assistono e prendono le mie difese, gli occhi mi diventano una fessura e a denti stretti intimo alla stronza sovrappeso di darmi un cazxo di biglietto, ma al solo nominare il molo 4, ahhhh niente biglietto!!


Finalmente capisco da sola che al molo 4 ci va la compagnia più economica, ma loro mica lo dicono, e neanche ti indicano dove aspettare! Gli stranieri mi accolgono nella loro fila e come vacche da macello attendiamo il nostro battello delimitati dai cordoli, finché veniamo incitati in malo modo ad imbarcarci, mentre ci spintonano e ci gridano. Io sei anni fa mi ricordavo un popolo completamente diverso, il paese del sorriso lo chiamavano, ma ora, trovo una situazione diversa, un popolo trasformato, che al posto di sorridere urla e strattona.


Ovviamente tutti i turisti che arrivano sul molo e cercano indicazioni, vengono informati dalla sottoscritta che non è necessario pagare il triplo per il battello con la bandiera blu, perché quella arancione è più economica. E quando arriva il mio turno di salire a bordo e passo davanti allo stronzo cafonazzo, sfoggio un sorriso vittorioso e appena apre bocca per chissà come apostrofarmi, gli rifilo una sequela di insulti e maledizioni che se ne va a segno anche solo una, può pregare Buddha, Shiva, Vishnu e la Madonna che neanche padre Amort lo può salvare!


mercoledì 5 dicembre 2018

Angkor giorno 2: il Bayon, le mille facce sorridenti, la storia di Naga e il tramonto all’Angkor Wat



01/12/2018
È Dicembre!! Qui in Cambogia hanno gia iniziato ad esporre gli addobbi natalizi e si sentono ovunque canzoni di Natale. Ma fuori ci sono sempre gli implacabili 30 e più gradi!
Alle 8:00 precise Pon ci aspetta fuori dall’ostello e partiamo verso il giro dei Templi più conosciuti.


Ci basta vedere da lontano quanta gente sta attraversando la passerella galleggiante dell’ Angkor Wat per decidere di proseguire verso il Phnom Bakheng, che molti pare prediligano per il tramonto. In realtà, come visto ieri per il Pre Rup, il tramonto dai templi è abbastanza inutile: 1- perché sarà pure bello vedere tramontare il sole tra gli alberi seduti in massa su pietre antiche e cariche di storia, ma di fatto a me piace vedere il sole che tramonta contro il tempio, e se è pieno di gente ammassata sui gradini, che guarda nella parte opposta, l’effetto fa molto foto ricordo cinese, quindi no grazie. 2- sono una viaggiatrice atipica, lo so, ma la condivisione dello spazio con troppa gente non è nelle mie corde, non basta che il limite massimo sia di 300 persone..300 persone stipate in pochi metri sono un mucchio di gente! Lungo la strada incontriamo un gruppo di scimmiette e ci fermiamo a giocare un po’ con loro, Ariel riesce a farmi delle foto molto carine con una piccina che si è fatta prendere in braccio.


Sulla nostra sinistra inizia il sentiero che si arrampica fino al Phnom Bakheng, un sito minore, attualmente in restauro, ma molto apprezzato e bello. Lungo la salita ci supera una coppia locale in scooter con un maiale cotto allo spiedo legato dietro. Arriviamo alla base del tempio, che è  strutturato come una piramide a 7 livelli, un tempo 108 torrette erano di guardia attorno alla struttura principale, lungo i gradini e sui lati, oltre che intorno alla base, ma sono tutte crollate. C’è un bellissimo panorama tutto intorno, la foresta circonda i Templi e li rende magicamente selvaggi.


Oltre la piramide, una breve passeggiata porta ad un paio di torrette, dove i cambogiani in scooter stanno celebrando un rituale per gli dei della natura, il maiale arrostito è posato a terra su un cartone, loro pregano e versano bevande al suolo, poi tagliano il maiale in pezzi e lo offrono simbolicamente alle statue racchiuse dentro la torretta. Affrettano i gesti vedendoci arrivare, pur restando sorridenti e cordiali. Si spartiscono in maiale e se ne vanno. Quando arriviamo al Bayon, il Tempio più grande, caratterizzato da un’infinita moltitudine di volti sorridenti, decidiamo di prendere una guida per 15 Usd. L’ora e mezza trascorsa insieme si rivela davvero interessante ed istruttiva.


Bana ci racconta che il Bayon è stato l’ultimo tempio ad essere edificato ad Angkor e l’unico costruito principalmente come tempio Buddista, questo perché nel corso dei secoli dell’impero Khmer,  c’è stata parecchia confusione in merito alla religione predominante: inizialmente si celebravano gli dei della natura, (come abbiamo visto fare nel tempio precedente, confermato da Bana la guida) poi divennero Buddhisti e i templi furono arricchiti con statue raffiguranti il Buddha, alcune ci sono ancora, molte vennero distrutte, altre invece, in rilievo lungo i muri, furono tagliate e asportate quando la religione diventó induista. Le colonne sono ricche di bassorilievi rappresentanti Sciva, danzatrici Khmer e Visnu. Quando poi si fece ritorno al Buddhismo, tutto venne lasciato inalterato, la filosofia pacifista di Buddha permette che in questi templi si venerino anche gli dei Indù.


Il primo livello che visitiamo, la galleria più esterna, è ricca di bassorilievi che rappresentano varie scene della storia dei Khmer e della loro vita sociale, si possono vedere gli scontri via mare con il popolo dei Champa, cerimonie e celebrazioni con tanto di danze, il lavoro nei campi, con tanto di pigrone che dice agli altri cosa fare, divertimenti popolari come le lotte di galli o di cinghiali, la vita di casa, la cottura del pesce. I Champa sono riconoscibili dal copricapo a punta, i Khmer invece dalle orecchie lunghe, Bana dice che era simbolo di fortuna e lui ricorda che da piccolo sua mamma gli tirava sempre i lobi per farglieli allungare.


Poi i Khmer Rossi hanno diviso le famiglie, e lui è stato mandato da solo in un villaggio lontano dai suoi cari, non l’ha più rivisti ed è cresciuto coi monaci. Molti orfani sono cresciuti nei Templi, sfamati dai Monaci che li hanno anche istruiti, poi quando sono stati abbastanza grandi per lavorare hanno contribuito ad aiutare, finché ognuno ha trovato la sua strada. Adesso Bana ha una moglie e due figlie, ma gli manca non avere altri familiari all’infuori di loro. Saliamo al secondo livello, osservati dalle tante facce sorridenti di pietra, attraversiamo corridoi coperti, che ci regalano un po’ di riparo dal sole, poi arriviamo davanti alla statua di Buddha in meditazione seduto su un Naga acciambellato sotto di lui.


Bana ci racconta la bellissima storia rappresentata da questa statua: al fine di raggiungere l’illuminazione decise di meditare per 7 giorni e sette notti senza fermarsi, ma nel frattempo arrivó un monsone che portó forti venti e piogge incessanti. Egli tuttavia non smise di meditare, il suolo inizió a coprirsi d’acqua e la temperatura a scendere, così Naga, il mitologico serpente a 7 teste che generó il popolo Khmer, si acciambelló sotto di lui, elevandolo dal suolo, aprì le sue 7 teste e spruzzó fuoco per tenerlo al caldo.


Sono talmente affascinata da questa storia che subisso Bana di domande e a fine giornata, fuori dall’ultimo tempio, Ariel compra e mi regala una statuetta in legno di Naga che protegge Buddha. Dice che si vedeva che mi era piaciuta così tanto la storia e sarebbe stato bello averne un ricordo. È stato un gesto davvero carino!
Proseguiamo la nostra visita in altri tempi molto belli, Ta Keo, il Ta Phnom, con gli edifici avviluppati dalle radici degli alberi, finchè per ultimo ci teniamo Angkor Wat, quando la maggior parte dei turisti si dividerà tra i due templi indicati dalla Lonely Planet, come i migliori per vedere il tramonto.


 La passerella è sgombra e anche se c’è un po’ di gente, la situazione è molto vivibile, inoltre non c’è coda per salire alla struttura principale, da cui si gode di bellissimi panorami. Usciamo prima che il sole scompaia dietro gli alberi, per vedere le 3 torri, simbolo della Cambogia e rappresentate nella bandiera, infiammarsi di luce.


Poi lo spettacolo migliora di minuto in minuto sull’acqua del fiume che lo circonda, quando il cielo assume tonalità dal rosso al rosa. Fondo la povera Canon per immortalare ogni frazione, Ariel sicuramente è già spiaggiato sul Tuk Tuk che mi aspetta insieme a Pon. Mangiamo un piatto veloce morti dal sonno e ci diamo appuntamento all’indomani, ma senza orario. Siamo stanchi del caldo, delle buche e delle scalate degli ultimi due giorni, dedicheremo la giornata al relax.






lunedì 3 dicembre 2018

Del ritorno di Ariel, degli effetti dell’happy pizza e del primo giorno ai Templi di Angkor


29-30/11/2018
Fa moltissimo caldo anche oggi..siamo alla fine del mese di Novembre e il sole qui in Cambogia è decisamente più sfiancante che in Vietnam, dove si stava bene, c’era caldo ma non si aveva l’impressione di fondere In una fornace. Ieri sera, di ritorno dalla mia giornata pesantissima ho però ricevuto una bella sorpresa ad attendermi. Ariel, il mio amico Israeliano, mi ha raggiunto oltre confine per visitare Siem Reap e i templi di Angkor War insieme!
Mi ha fatto molto piacere ritrovarlo ancora, anche perché eravamo ad Ho Chi Minh City negli stessi giorni, ma tra tempeste e appuntamenti galanti con ragazze asiatiche (lui ovviamente), non eravamo riusciti a salutarci.


Andiamo quindi a cenare in un ristorante vegetariano vicino al fiume Tonle Sap, su cui si affaccia il nostro ostello e poi finiamo la serata a chiacchierare sul tetto, che ha una bellissima zona Chill out, dove rilassarsi, guardare le barche illuminate che scivolano sull’acqua, bere una birretta e sfumazzare le ultime sigarette Saigon che mi sono rimaste. Quando torno in camera mia, la singaporense dorme già e la taiwanese inizia una sinfonia di russate degne di un taglialegna. Provo coi versi, a schiarirmi la gola, a chiamarla come fosse un gatto ma ottengo solo un effetto peggiore, alla fine le sbragio un ”Ohuuuu” e per un po’ si cheta.
Il giorno dopo è l’ultimo a Phnom Penh, devo un po’ correre queste ultime tappe perché il tempo stringe, così, mentre Ariel dedica la sua giornata all’orrore dei Khmer Rossi, io gironzolo tra Stupa, Templi e il Museo Nazionale.


Il Palazzo Reale no, perché anche se indosso una grande e caldissima stola, non basta per non offendere la famiglia reale, quindi vengo rimbalzata..non ci rimango così male, in coda per entrare ci sono una tonnellata di cinesi e vecchi francesi dall’aria sperduta.
Oh, e c’è anche l’imbarcazione più lunga del mondo iscritta al Guinness dei primati! Mi dicono che se arrivavo qualche settimana fa potevo vederla scendere lungo il fiume!


Visto il gran caldo e la fatica a fare qualsiasi cosa, mi lancio dentro una Spa e mi regalo un fantastico massaggio Orientale, uno dei migliori della mia vita, il posto è bellissimo, tutto in legno scuro e tappeti di corda, mi lavano i piedi, calzo le infradito, salgo le scale mentre ascolto note rilassanti e mi sdraio su un lettino che profuma di albero, abbandonandomi alle mani della mia sapiente massaggiatrice Khmer.


Dopo più di un’ora ritorno sulla terra e con lo sguardo goduto sono pronta a riaffrontare il caldo di Phnom Penh, l’incessante offerta di Tuc Tuc e neanche me ne frega più del Palazzo Reale. Anzi, entro nel Burger King che è di strada e ordino un panino, in quella arriva Ariel, che ha avuto la mia stessa idea, siccome qui in Cambogia i ristoranti sono più cari e meno allettanti del Vietnam.
Prenotiamo lo sleeping bus notturno delle 23 per Siem Reap e andiamo a veder il tramonto sul tetto. Lui va a mangiare una pizza, ma non una normale pizza, la famosa happy pizza di cui anche le mie compagne di stanza mi parlavano stamattina, ecco spiegato perché la notte precedente una era brasata e l’altra russava come un trattore! Trattasi di pizza con semi di marijuana, disponibile in versione soft, con pochi semi, intermedia e superstrong!


Il fatto è che io mica ho associato che Ariel andava a mangiare l’happy pizza, quindi quando torna con gli avanzi me li offre, io la guardo senza capire cosa sia il condimento verdastro, penso ad una spezia di quelle orrende che solo loro possono mettere sulla pizza e ne addento una fetta. Storco il naso perché mi sembra di mangiare una pizza all’alga Nori, quella usata dai giapponesi per il Sushi, e gli chiedo “ Is it Pesto Sauce?” Lui mi guarda come se fossi cretina e mi risponde “No, weeds!”  Quando realizzo che ho appena mangiato una fetta di pizza ai semi di Marijuana strabuzzò gli occhi e  inizio a insultarlo! “Ma sei scemooooo! Io non mi drogo!” Lui mi guarda esterrefatto, dicendo che pensava avessi capito, si scusa 100 volte, ma ormai io sono già lì ad aspettare di percepire l’effetto di quella piccola microscopica fetta, che immagino mi procurerà incubi notturni, proprio stanotte che devo viaggiare in un bus, tra chissà quante persone, senza l’accesso al bagno, nè i comfort di una normale stanza in ostello!


Quando arriviamo sul bus, scopriamo che ci hanno dato due posti letto a livello inferiore, come volevamo, ma sono gli ultimi in fondo, quindi quando ci sdraiamo sentiamo il motore che gira sotto le nostre teste. Ci scappa la ridarella, forse l’ happy pizza inizia a fare effetto e cerchiamo di soffocare le risate peggiorando la situazione. Nel silenzio si sente solo noi. Iniziamo a sparare cazzate, immaginando di essere tamponati nella notte, poi arrivano i due inquilini sopra ai nostri letti: uno più grasso dell’altro!


 Riattacchiamo a ridere pensando che le strutture non reggeranno e verremo schiacchiati nella notte, poi per fortuna il bus parte e noi ci addormentiamo. Mi sveglio che ci siamo appena fermata alla stazione di Siem Reap, incredibilmente ho dormito tutto il viaggio!
Andiamo in ostello a posare gli zaini e partiamo subito a contrattare un Tuc Tuc che ci porti a visitare un po’ di templi, tra l’altro pantaloni sotto il ginocchio e maniche oltre le spalle per rispetto ai luoghi di culto!! Voglio morire!


Il meglio lo lasciamo per il giorno seguente. Oggi facciamo il giro dei misci!
Il nostro Pon ci porta in giro fin dopo il tramonto, aspettando paziente il nostro ritorno e fermandosi ad ogni richiesta. Si diverte anche a scassarci la schiena sulla strada piena di buche che porta da un tempio all’altro!


Visitiamo in tutto 6 templi, tra il sole cocente, la terra rossa che ci ricopre tutti i pori fin sopra ai capelli e la nausea del sali e scendi di scale ripidissime, cunicoli stretti, viste mozzafiato, stagni in cui si specchiano le antiche torri cerimoniali, giovani bellezze esotiche che ci sfiniscono di richieste d’acquisto della loro merce, bambini bellissimi che ci guardano diffidenti. La sera Ariel va in un posto dove si riunisce la comunità ebraica locale, io faccio un giro tra le luci colorate dell’enorme night market e poi mi butto nel letto stravolta dalla giornata.







giovedì 29 novembre 2018

Il museo del Genocidio e i Campi della morte di Phnom Penh



28\11\2018
Mi sveglio col sole, per la prima giornata a Phnom Penh, ho in mente di visitare il Tuol Sleng Genocide Museum, meglio conosciuto come S21, il più famoso di 200 prigioni ubicate in tutto il paese, dove la gente veniva torturata e uccisa dai Khmer Rossi. Il nome deriva dal fatto che Khmer è la più vasta etnia della Cambogia e Rossi perché questo e' notoriamente il colore della bandiera comunista. L’audio guida mi informa che qui vennero imprigionate tra le 12.000 e le 20.000 persone, e solo 12 sono sopravvissute. La prima fermata si affaccia su 14 tombe bianche, ospitano le ultime 14 vittime della prigione, uccise in tutta fretta, quando avanzavano ormai le truppe di liberazione sulla citta'. Furono trovate dai altri cambogiani come loro, disertori del partito, incatenate alle loro brande, impossibili da identificare. Le foto sulle pareti di ogni stanza raffigurano il momento in cui sono state trovate e lo stato in cui si trovavano i corpi.
Quando il 17 Aprile 1975 i Khmer Rossi marciarono su Phnom Penh, fino a 3 milioni di persone vivevano nella citta', più della metà erano rifugiati, reduci da battaglie interne al paese, e successivamente dagli 8 anni in cui gli USA bombardarono la Cambogia, come parte della guerra con il Vietnam. In America era chiamata la guerra segreta, ma qui non era un segreto per nessuno, fino al 1973 gli Americani sganciarono più bombe sulla Cambogia, di quante ne avessero sganciate nella II Guerra mondiale!
Uccisero più di 100.000 persone, per lo più civili, agricoltori. Non ci si meravigli quindi, se i cambogiani accolsero i rivoluzionari Khmer Rossi col sorriso: pensavano fosse la fine della loro miseria, ma era solo l’inizio. Appena 3 ore dopo, quello stesso giorno, gli abitanti furono scacciati da Phnom Penh, dalle loro case, verso le campagne, gli dissero che era per la loro sicurezza. Gli abitanti gia' stremati dalle guerre e dalla fame morirono a migliaia durante il viaggio, di stenti, malnutrizione e malattie. Chi si rifiutava di partire veniva immediatamente giustiziato. 
Sei mesi dopo l’S21 venne insediato in quello che oggi è il museo del Genocidio e un tempo scuola superiore. La Cambogia soffri' per 3 anni 8 mesi e 20 giorni, indicibili supplizi, in nome della follia distruttiva di Pol Pot, leader del partito comunista di Kampuchea, ex nome della Cambogia, ribattezzato Angkar, che significa semplicemente “l' organizzazione”. 
Inizio la visita dall’ Edificio A, dove venivano rinchiuse le persone importanti, spesso il loro nome veniva occultato o cancellato dai registri, è qui che furono trovate le ultime 14 vittime. Fuori dalla struttura un cartello riporta le regole che i prigionieri dovevano seguire. Le feritoie per il passaggio dell’aria e della luce, una volta esistenti e le finestre vennero murate, per evitare che dagli altri edifici, i prigionieri sentissero le urla dei torturati, ma in realta' tutti, dagli altri edifici, sentivano cosa accadeva li dentro. Tutto e' rimasto come allora, le brande, i segni sui muri, le catene.
L’ Edificio B era occupato da altre celle molto più anguste. Oggi il piano superiore è destinato alla formazione e a mostre temporanee, il piano inferiore conserva prove fotografiche e documenti.
In alcuni scatti sono immortalati i volti degli uomini che decisero le sorti della Cambogia: Pol Pot il folle leader del partito di Angkar, col suo folle progetto diu ripulire il paese e ripartire dall' anno zero, detto fratello numero 1, il Compagno Duch direttore della S21, che stabiliva le attività giornaliere dei prigionieri, le torture e autorizzava le esecuzioni, Son Sen vice primo ministro, con gli occhiali, che insieme alle mani morbide per chi non era al potere erano segno di intellettualità, caratteristiche del possibile nemico della rivoluzione, portare gli occhiali poteva significare la morte. 
Il Partito di Angkar perlustrava i villaggi per reclutare bambini e adolescenti da formare per lavorare alla S21, molti erano analfabeti, facilmente manipolabili, la loro formazione consisteva nel canto di slogan e apprendimento delle regole di condotta. Poi avrebbero, assistito, interrogato e torturato i prigionieri. Gli si faceva credere che questo era il lato giusto del partito e l’anima del paese, dovevano mostrarsi sempre allegri, ridere della sofferenza e della morte, per non essere sospettati di provare pena, di soffrire per la sorte dei traditori, che altro non erano che loro fratelli cambogiani. La maggior parte di loro, quando la paranoia sul tradimento al partito di Pol Pot crebbe, fu imprigionata a sua volta e giustiziata. Le donne che lavoravano a S21 erano più che altro dottori e cuoche, ma almeno una effettuava gli interrogatori, dopo che una prigioniera fu violentata da una guardia. Il Compagno Duch sceglieva i giovani, insegnava loro i migliori metodi per estorcere confessioni. Pol Pot, che sosteneva che i contadini erano i suoi eroi e ripudiava ogni forma di crescita culturale e intellettuale, ridusse alla fame il popolo cambogiano, compresi quelli da lui definiti la ricchezza del paese, gli umili agricoltori. il denaro fu abolito, come la proprietà privata, nessuno poteva possedere nulla, tutto apparteneva ad Angkar, a cui si doveva devozione ed obbedienza, prima che alla propria famiglia. Cucinare per proprio conto era proibito, il regime prevedeva dei pasti in comune, che consistevano in riso annacquato che la gente riceveva da un enorme bacile, le razioni erano minime. Dopo il 1976 le razioni di cibo furono ridotte da 3 a 2 al giorno, lo stretto necessario per tenere in piedi i contadini, che lavoravano duramente dall’alba al tramonto nelle risaie per triplicare i raccolti, come da ordine di Angkar. Una richiesta disumana e impossibile da accontentare. La gente di città inoltre non sapeva come coltivare il riso (nemmeno Angkar lo sapeva), fu un disastro totale, in cui almeno 2 milioni di persone morirono di fame, di stenti e malattie, (un quarto della popolazione cambogiana), oppure giustiziate perché non avevano soddisfatto le richieste del partito. Per chi sopravvisse la vita cambió comunque per sempre. 
Il partito arrestava sempre piu' persone, includeva tutti i familiari, così,  dicevano, non sarebbe rimasto nessuno a potersi vendicare in futuro; “ arresto di parentela” veniva definito: “ quando si estirpano le erbacce è necessario eliminarle tutte, radici incluse”, era un motto di Pol Pot. Quando nel 1 Gennaio 1979 le truppe di liberazione vietnamite e cambogiane che avevano disertato il regime di Pol Pot, marciarono su Phnom Penh, al personale della S21 venne ordinato di distruggere tutte le foto e i documenti. Dovettero scappare prima di aver terminato, molte foto furono separate dai relativi documenti, e molte non sono ancora state identificate. Immaginate cercare qui un familiare tra migliaia di volti cosa deve essere stato per le famiglie delle vittime. Inoltre, durante i terribili anni bui in cui si svolsero i fatti, i Khmer Rossi, insediati al potere, inviarono centinaia di lettere ai cambogiani che vivevano all’estero, chiedendo loro di tornare in patria, per aiutare il paese, acconsentirono con gioia, ma una volta arrivati, furono imprigionati, torturati, costretti a confessare il tradimento al partito e il loro coinvolgimento con enti come CIA e KGB e le loro famiglie non li videro mai più tornare. Un pannello raccoglie le immagini delle vittime provenienti da paesi stranieri, nemici del partito e spie delle organizzazioni gia' citate, con le quali ovviamente non avevano nessun legame. Altre foto raffigurano i prigionieri torturati troppo duramente che spiravano prima che fosse firmata la loro esecuzione da Duch, le morti accidentali, queste foto servivano per fare rapporto ai superiori. Quando un prigioniero era sul punto di non resistere più alle torture, veniva chiamato un medico affinché lo tenesse in vita per prolungare la sua agonia e poterlo torturare ancora. Le medicine erano composte da acqua salata per disinfettare le ferite e un composto di farina aceto e zucchero, con cui si facevano pillole. Siccome i veri medici venivano giustiziati come traditori del regime, giovani dottori venivano formati in 4 mesi, facendo pratica di anatomia sezionando i prigionieri vivi. I reclusi fornivano anche il sangue per l’esercito, in una pratica chiamata “distruzione per il sangue”. Una guardia racconta: “venivano incatenati, un tubo in ogni braccio e si pompava. Da ogni prigioniero venivano riempite 4 sacche, dopodiché venivano lasciati appoggiati al muro, respiravano come grilli, le pupille dilatate, non sentivano più niente, scavavamo delle fosse e li seppellivamo”. 
L'edificio C, che un tempo ospitava le aule della scuola, è stato suddiviso in molte piccole celle di circa un metro quadrato, o grandi stanzoni utilizzati per le detenzioni di massa, i prigionieri erano incatenati tra loro, fimo a 9 insieme, dovevano stare fermi immobili e non emettere suoni, se le catene facevano rumore venivano picchiati. La superficie esterna dell'edificio è completamente ricoperta di filo spinato, dopo che un detenuto si era suicidato lanciandosi al piano di sotto, il suicidio era per lo piu' impossibile, solo alcuni riuscirono nell'intento, uno si conficco' la penna con cui stava scrivendo la sua confessione nel collo e un altro si verso' sul capo il liquido di una lampada a olio. Gli interrogatori servivano a far confessare alle vittime i loro tradimenti al regime di Angkar e di avere contatti , come gia' detto, con organizzazioni segrete di cui non avevano mai sentito parlare, il furto di cibo, di non aver completato un lavoro assegnato. Dopo giorni di tortura ininterrotti tutti confessavano e questo era sufficiente per essere giustiziati. Ad Angkar non interessava la verità, solo un motivo, estratto con la forza, per poter "schiacciare" chi era considerato un nemico del regime. Nell'edificio D le foto illustrano la filosofia della distruzione dei Khmer rossi, che cercavano di cancellare tutto ciò che aveva sostenuto la cultura cambogiana, a partire dai luoghi di culto, le credenze tradizionali erano proibite, la gente doveva credere solo ad Angkar. I monaci furono uccisi, i Templi diventarono centri di detenzione e raccolta di corpi. Cinema nuovi, vuoti e distrutti, le arti bandite, anche l'economia fu distrutta, tutto ciò che rappresentava crescita e modernità bandito, cancellato. I Khmer pensavano che la paura instillata nella gente e la rinuncia li avrebbero portati al successo. Fortunatamente sbagliarono. L'ultima stanza mostra cosa è successo alla fine, un' enorme fotografia ritrae una fossa comune, una delle oltre 300 esistenti in tutto il paese. I campi della morte di Choeung Ek furono creati quando non ci fu più spazio per seppellire le vittime nella S21. I detenuti venivano bendati e trasportati di notte su camion, poi arrivati ​​a destinazione, venivano fatti inginocchiare sul bordo di una fossa e uccisi con colpi alla testa, usando quello che capitava: una sbarra di ferro, una zappa, un martello, poi gli tagliavano la gola. Non gli si sparava, perche' i proiettili erano costosi e per mantenere il rumore al minimo. Sono stati stimate 20.000 morti a Choeung Ek, ma molti resti non sono stati ancora recuperati. Nell'ultima stanza che visito sono raccolti alcuni teschi, probabilmente appartenenti alle prime vittime della S21. 
Nel 2009, iniziarono le udienze per il caso 001 davanti alla corte della Cambogia,  giudici internazionali e cambogiani presiedevano la corte, la loro missione era quella di perseguire i capi e gli autori dei crimini commessi durante gli anni del potere di Angkar. Nel 2012, il Compagno Duch è stato condannato all'ergastolo, (solo dopo aver ricevuto una condanna da 35 anni, ridotta a 30 e aver presentato ricorso pero'!) il caso 002 ha portato i 4 capi sopravvissuti del partito Kampuchea al banco nel 2011. Tutti condannati all'ergastolo, a parte il ministro degli Esteri che morí prima della fine del processo e la moglie, cognata di Pol Pot, che sviluppo' una grave demenza senile durante il processo e fu esclusa dal procedimento. Pol Pot era già morto. 
Il museo è parte della memoria del mondo, l' UNESCO ha registrato quanto accadde qui, come elemento di interesse per l’intero genere umano. I documenti trovati qui sono testamento della disumanità che sarà ricordata per generazioni, in modo che non possa accadere di nuovo.
All'uscita contratto un passaggio da un autista di Tuk Tuk per continuare la visita ai campi della morte.
I killing fields di Choeung Ek sono stati la fine del viaggio dei prigionieri, a cui fu detto che sarebbero stati trasferiti in una nuova casa, furono ingannati, ancora, perche' venivano qui per morire. Eorse qualcuno di loro immaginava e provo' sollievo per l' imminente fine.  Nel 1978 arrivavano fino a 300 prigionieri al giorno. Monaci, monache, avvocati, professionisti, medici, scrittori, questi erano i nemici del regime Pol Pot, tutti da eliminare.
Il campo fu scelto perché era lontano dalla città e perché era già stato un cimitero della comunità cinese locale. I corpi nelle fosse venivano ricoperti di sostanze chimiche, come il ddt in polvere, che completava il lavoro iniziato dalle guardie, l'odore copriva anche il fetore della decomposizione. Gli alberi di palma da zucchero che circondano quest'area non erano usati per dolcificare o fabbricare tetti di paglia, ma gli steli che sostengono le foglie sono così duri e taglienti che a volte venivano usati per sgozzare i prigionieri. Oggi, dove sorgeva il campo della morte, dove venivano effettuate le esecuzioni, sono stati piantati degli alberi. Qui furono trovati 450 corpi, nel 1979 furono scoperte in tutto 129 fosse, su un'area di 2,4 ettari, contenenti oltre 20.000 vittime. Il motto di Pol Pot era "meglio uccidere per errore un innocente, che risparmiare per errore un nemico". Ogni 2 o 3 mesi i gestori del centro raccolgono i brandelli, le ossa e i denti spuntati in superficie a causa delle piogge, una teca raccoglie vestiti che il terreno fa riaffiorare dal 1980. Alcuni visibilmente appartengono ai bambini. Quando nel 1979 Pol Pot fu finalmente rovesciato, fuggi' coi suoi verso il confine thailandese, ma per oltre 10 anni, l'Occidente continuo' a temere la minaccia del comunismo e la Cambogia rimase isolata dal resto del mondo. I Khmer Rossi si riorganizzarono nella giungla, erano ancora considerati i governanti legittimi dalla maggior parte dei paesi occidentali, ricevettero un seggio alle Nazioni Unite, inviarono i loro rappresentanti a New York e ricevettero persino aiuti finanziari, mentre i cambogiani soffrivano per ricostruire il paese! Pol Pot rimase leader per altri 20 anni, finche' fu condannato agli arresti domiciliari, per poi morire un anno dopo, avendo comunque trascorso una vita tranquilla, con moglie, figli e nipoti.
Nel 1988 fu inaugurato lo stupa commemorativo di Choeung Ek, al suo interno si trova una teca di 17 livelli, 17 come il giorno in cui i Khmer Rossi entrarono a Phnom Pehn. I primi 10 livelli conservano almeno 9000 teschi, nei livelli superiori sono conservate le ossa più grandi, le più piccole, sono state lasciate nel terreno, perché non c'era abbastanza spazio per esporle tutte. Lo stupa è una struttura buddista, usata per contenere reliquie sacre e in questo caso, oltre ad essere più grande della media, è decorata con simboli sia buddisti che induisti. Sotto il tetto, in ogni angolo ci sono grandi uccelli Garuda, animali mitologici, che mescolano le caratteristiche di un grande uccello, un leone e un uomo. Il grande Dio Vishnu cavalca un Garuda. Negli angoli sporgenti del tetto si scorgono dei serpenti magici noti come Naga, hanno code dorate che si attorcigliano a spirale fino alla cima del tetto. I Naga secondo la leggenda hanno generato il popolo Khmer e sono spesso rappresentati con 7 teste. Tradizionalmente sono nemici dei Garuda, ma quando si incontrano, come qui, diventano un simbolo di pace. Mentre lascio i campi di sterminio a bordo del tuk tuk che mi aspetta fuori, un sole rosso di fuoco tramonta sui campi, solo che oggi non riesco ad apprezzarlo, oggi il rosso non mi piace più tanto come colore.
                                      



Giornate intere tra le Dogane, il poco interessante viaggio da Saigon a Phnom Penh



27/11/2018
Alle 8:30 sono pronta a salire sul bus che mi porterà al di là della frontiera, in Cambogia, per l’ultima parte del mio viaggio. Il mio compagno di sedile ha una faccia che non riesco ad inquadrare, solitamente sono brava a capire le nazionalità delle persone, ma alcuni paesi mi traggono in inganno, probabilmente perché ci sono mix di origini nei loro tratti somatici che depistano. Comunque mi ha rubato il posto; il lato finestrino l’ho espressamente prenotato io! L’assistente del bus viene a ritirare i passaporti, io ho già il visto elettronico per la Cambogia, il mio compagno paga sul momento, intuisco dal suo sguardo che sta cercando di capire se il costo è maggiorato, come ogni volta, qui in Vietnam, così noto che allunga all’omino del bus un passaporto italiano. Lo guardo e gli dico che il prezzo è lo stesso che ho pagato io. Mi risponde in inglese, che capisce abbastanza la mia lingua ma non parla italiano, suo padre lo è, per questo ha doppio passaporto, oltre a quello brasiliano.
Iniziamo a chiacchierare e la guida lenta e il traffico di Ho Chi Minh passano in secondo piano. Verso le 11:00 arriviamo alla frontiera, ci fanno scendere e l’omino del bus si perde tra la folla con i nostri passaporti.


Non ci dice niente, ne dove aspettare, ne se dobbiamo passare il metal detector o se prima ci deve ridare il passaporto. Abbandonati a noi stessi. Per toglierci di dosso le donne con in mano le mazzette di Riel Cambogiani da cambiare con i Dong vietnamiti, passiamo il controllo, anche se nessuno guarda il monitor e nessuno ci controlla le tasche. Il nostro omino ogni tanto spunta e chiama qualche nome, che può tornare sul bus, dopo circa 30 minuti siamo tutti a bordo, tranne un ragazzo tedesco che ha perso l’evisa e non so quali problemi ha con una moto comprata in Vietnam. Lo aspettiamo un’eternità. Il bus riparte, facciamo 10 metri e si scende di nuovo, stavolta per passare la dogana Cambogiana..ci guardiamo straniti.


Entriamo nell’edificio, passiamo tra un corridoio di addetti che neanche ci guardano e usciamo dalla parte opposta..boh. Risaliamo sul bus ma del nostro omino non c’e traccia. Il bus si muove senza di lui e senza il ragazzo tedesco. Si ferma un paio di km dopo, in uno pseudo ristorante dove riescono a mangiare solo l’autista, e una coppia vietnamita con neonato. Nessun occidentale si azzarda a ordinare niente. Il mio compagno di sedile ne viene da un avvelenamento di cibo e guarda disgustato le pietanze dietro al vetro. Io mangio una scatola di Ritz comprati in precedenza.



Alle 14 finalmente ripartiamo, i commenti di altri viaggiatori sul passaggio della frontiera che interrogherò in seguito saranno entusiastici, in 10 minuti tutti hanno ripreso il viaggio! Ovviamente! Alle 17 finalmente arriviamo a destinazione per la giornata persa più persa della storia. A parte questo Phnom Penh mi pare più bella delle città Vietnamite, e cosa importantissima, il traffico qui è più lento e non suonano il clacson di continuo, come dei maniaci del rumore. Purtroppo lungo il tragitto non ho potuto vedere molto dalla mia posizione, ma ho notato distese di campi e casette con i porticati, mucche al pascolo, diverse dai bufali vietnamiti e bellissimi tetti con le classiche punte in su, tipici di questo paese.


Mentre il Tuk Tuk mi porta sulle rive del Tonle Sap, che ad occhio nudo vedo congiungersi col Mekong, passiamo davanti a bellissimo edifici: il Palazzo Reale, il Museo Nazionale, la Pagoda d’argento. Non vedo l’ora che sia domani per visitare questo nuovo paese..dopo quasi due mesi di Asia, la mia voglia di continuare non si è placata. Prendo in considerazione la possibilità di tornare a Gennaio..


martedì 27 novembre 2018

Giornata mondiale dei Templi a Saigon



La mattina del 25/11 la tempesta, già fin troppo in ritardo, non ce l’ha fatta più ad aspettare ed è arrivata alle porte di Saigon, passando dalla costa, come aveva promesso, dopo aver rosicchiato la terra sotto i piedi alle linee ferroviarie, scoperchiato tetti, sradicato alberi e fatto somigliare Nha Trang ad una succursale di Venezia, ma senza passerelle rialzate.
I rovesci sono costanti, quindi non c’è altro da fare che stare a letto con un buon libro, ed io fortunatamente ho l’uno e l’altro! La giornata passa così, tra uno sbadiglio e l’altro e una passeggiatina alla vetrata per vedere cosa succede in strada.


Il giorno dopo invece, anche se il cielo è grigio, non piove, perciò mi avventuro in strada per seguire il mio obiettivo della giornata: visitare tutti i templi della citta, includendo il vecchio quartiere cinese di Cho Lon.  Mi aspettano molti chilometri da percorrere.
Il primo tempio è molto vecchio e le decorazioni del tetto, contro questo cielo plumbeo acquisiscono ancora più fascino, inoltre la cima del cancello che lo racchiude è avvolto da filo spinato, particolare un po’ atipico per un luogo di culto. Un vecchio custode sta seduto tra il portale d’ingresso e il piazzale, e fa colazione con una tazza di zuppa e spaghetti, in compagnia di un cane sbrincio.


Continuo a camminare tra le vie tutte uguali ragionando sull’edilizia vietnamita, che comunque, nonostante non si possa descrivere con grandi elogi, è molto più decorosa rispetto a quella vista in Cina,  Thailandia e Taiwan. Un tempio non contemplato sulla mia lista spezza la monotonia del cammino.


Seguo il percorso su Google maps, con le tappe che ho inserito in ostello, quando avevo la connessione e ne approfitto per elogiare l’applicazione, perché senza, mi sarei persa ogni giorno passato in Vietnam. Questo non solo perché io, come più volte ricordato in altri post di viaggio, non ho il senso dell’orientamento, o perché dovendo scegliere tra due direzioni prenderei sempre quella sbagliata, ma anche perché in Vietnam non amano i cartelli stradali.


Sono un po’ come i semafori, inutili perché non li rispetta nessuno, perciò perché metterli! Google e i satelliti lo sanno e quindi grazie, per avermi dato la possibilità ogni giorno di arrivare dove volevo: a piedi, in moto e col pensiero, quando la sera pianificavo la tappa del giorno dopo e scoprivo che era fattibile.
Per arrivare al terzo Tempio, il navigatore mi fa passare in mezzo ad un piccolo e pittoresco mercato, dove ho l’occadione di fare qualche scatto interessante alle venditrici di pesce, alle verduraie e alle macellatrici di carne.


Questo tempio, pur non essendo niente di particolare, deve essere segnalato sulle Lonely Planet e affini, perchè è preso d’assalto dai turisti di mezz’età. Me ne vado in fretta, perché come già detto non amo avere gente nelle mie foto e mi ritrovo, dopo mille saliscendi pericolosi dai marciapiedi, scavalcando spazzatura, gente che cucina e pezzi di marciapiedi sconnessi, davanti al teatro di Cho Lon.



È deserto e bellissimo, pieno di murales sullo stile delle vecchie cartoline francesi delle località balneari e ritratti di bellissime attrici asiatiche. Mi fermo a mangiare in un locale che fa prevalentemente ravioli, già che siamo nel vecchio quartiere cinese. Mi rimetto in marcia e trovo un altro bel tempio e una chiesa Cristiana che somiglia vagamente ad un castello disneyano. Tagliando poi per una stradina interna, per sfuggire un po’ allo snervante traffico e all’inquinamento acustico, assisto alla pesa di un gallo in mezzo alla strada.


La cosa assurda è che è il pesa-Galli a guardare me stranito, come se lui, li accucciato sull’asfalto stesse facendo la cosa più normale del mondo. E poi un gallo in piena citta..ma perché stupirsi, visto che sono pure passata davanti a botteghe con i polli che scorrazzavano sul marciapiedi. Per non parlare della venditrice di uccelli, che quando li vende li infila in un sacchetto di carta come fossero pomodori!


Arrivo al tempio più bello, Giac Lam Pagoda, deserto, dove è in corso una preghiera buddista molto musicale e coinvolgente, il Monaco recita scandendo il tempo su un campanaccio di legno, i fedeli gli fanno eco, mentre gli altoparlanti diffondono il canto per tutto il cortile. Un grasso Buddha pacioso assiste soddisfatto. Il prossimo Tempio si trova sulle rive del fiume, è parecchio lontano e sono stanca.


Decido quindi di chiamare un Grab, e qui vado a spiegare quest’altro miracolo vietnamita. Siccome il traffico è allucinante, gli autobus quasi inesistenti ( e comunque non si sa dove fermino nè che tratta facciano quindi sono impossibili da gestire per un occidentale ) e i taxi costosi, ecco l’invenzione che risolve la vita, mototaxi in continuo movimento per la città, contattandoli tramite app, inserendo la propria posizione e la destinazione, la tariffa compare sullo schermo insieme alla faccia del motociclista che ti verrà a recuperare in pochi minuti. Vestono tutti la giacca verde e il casco in tinta con la scritta Grab, ti portano a destinazione in sicurezza, paghi una sciocchezza d tanti saluti. La cosa eccezionale è proprio l’immediatezza.


L’ultimo tempio, che doveva essere quello su cui avevo riposto grandi aspettative è una ciofeca, quindi, essendo le 17, dichiaro chiusa la giornata a sfondo religioso e me ne torno in ostello, per prepararmi alla mia ultima cena vietnamita, e siccome ho 600.000 Dong da spendere (circa 22€), ho deciso che mi tratto bene e vado in un posto chic, solitamente spendo dagli 80.000 ai 140.000 per un buon pasto!