giovedì 29 novembre 2018

Il museo del Genocidio e i Campi della morte di Phnom Penh



28\11\2018
Mi sveglio col sole, per la prima giornata a Phnom Penh, ho in mente di visitare il Tuol Sleng Genocide Museum, meglio conosciuto come S21, il più famoso di 200 prigioni ubicate in tutto il paese, dove la gente veniva torturata e uccisa dai Khmer Rossi. Il nome deriva dal fatto che Khmer è la più vasta etnia della Cambogia e Rossi perché questo e' notoriamente il colore della bandiera comunista. L’audio guida mi informa che qui vennero imprigionate tra le 12.000 e le 20.000 persone, e solo 12 sono sopravvissute. La prima fermata si affaccia su 14 tombe bianche, ospitano le ultime 14 vittime della prigione, uccise in tutta fretta, quando avanzavano ormai le truppe di liberazione sulla citta'. Furono trovate dai altri cambogiani come loro, disertori del partito, incatenate alle loro brande, impossibili da identificare. Le foto sulle pareti di ogni stanza raffigurano il momento in cui sono state trovate e lo stato in cui si trovavano i corpi.
Quando il 17 Aprile 1975 i Khmer Rossi marciarono su Phnom Penh, fino a 3 milioni di persone vivevano nella citta', più della metà erano rifugiati, reduci da battaglie interne al paese, e successivamente dagli 8 anni in cui gli USA bombardarono la Cambogia, come parte della guerra con il Vietnam. In America era chiamata la guerra segreta, ma qui non era un segreto per nessuno, fino al 1973 gli Americani sganciarono più bombe sulla Cambogia, di quante ne avessero sganciate nella II Guerra mondiale!
Uccisero più di 100.000 persone, per lo più civili, agricoltori. Non ci si meravigli quindi, se i cambogiani accolsero i rivoluzionari Khmer Rossi col sorriso: pensavano fosse la fine della loro miseria, ma era solo l’inizio. Appena 3 ore dopo, quello stesso giorno, gli abitanti furono scacciati da Phnom Penh, dalle loro case, verso le campagne, gli dissero che era per la loro sicurezza. Gli abitanti gia' stremati dalle guerre e dalla fame morirono a migliaia durante il viaggio, di stenti, malnutrizione e malattie. Chi si rifiutava di partire veniva immediatamente giustiziato. 
Sei mesi dopo l’S21 venne insediato in quello che oggi è il museo del Genocidio e un tempo scuola superiore. La Cambogia soffri' per 3 anni 8 mesi e 20 giorni, indicibili supplizi, in nome della follia distruttiva di Pol Pot, leader del partito comunista di Kampuchea, ex nome della Cambogia, ribattezzato Angkar, che significa semplicemente “l' organizzazione”. 
Inizio la visita dall’ Edificio A, dove venivano rinchiuse le persone importanti, spesso il loro nome veniva occultato o cancellato dai registri, è qui che furono trovate le ultime 14 vittime. Fuori dalla struttura un cartello riporta le regole che i prigionieri dovevano seguire. Le feritoie per il passaggio dell’aria e della luce, una volta esistenti e le finestre vennero murate, per evitare che dagli altri edifici, i prigionieri sentissero le urla dei torturati, ma in realta' tutti, dagli altri edifici, sentivano cosa accadeva li dentro. Tutto e' rimasto come allora, le brande, i segni sui muri, le catene.
L’ Edificio B era occupato da altre celle molto più anguste. Oggi il piano superiore è destinato alla formazione e a mostre temporanee, il piano inferiore conserva prove fotografiche e documenti.
In alcuni scatti sono immortalati i volti degli uomini che decisero le sorti della Cambogia: Pol Pot il folle leader del partito di Angkar, col suo folle progetto diu ripulire il paese e ripartire dall' anno zero, detto fratello numero 1, il Compagno Duch direttore della S21, che stabiliva le attività giornaliere dei prigionieri, le torture e autorizzava le esecuzioni, Son Sen vice primo ministro, con gli occhiali, che insieme alle mani morbide per chi non era al potere erano segno di intellettualità, caratteristiche del possibile nemico della rivoluzione, portare gli occhiali poteva significare la morte. 
Il Partito di Angkar perlustrava i villaggi per reclutare bambini e adolescenti da formare per lavorare alla S21, molti erano analfabeti, facilmente manipolabili, la loro formazione consisteva nel canto di slogan e apprendimento delle regole di condotta. Poi avrebbero, assistito, interrogato e torturato i prigionieri. Gli si faceva credere che questo era il lato giusto del partito e l’anima del paese, dovevano mostrarsi sempre allegri, ridere della sofferenza e della morte, per non essere sospettati di provare pena, di soffrire per la sorte dei traditori, che altro non erano che loro fratelli cambogiani. La maggior parte di loro, quando la paranoia sul tradimento al partito di Pol Pot crebbe, fu imprigionata a sua volta e giustiziata. Le donne che lavoravano a S21 erano più che altro dottori e cuoche, ma almeno una effettuava gli interrogatori, dopo che una prigioniera fu violentata da una guardia. Il Compagno Duch sceglieva i giovani, insegnava loro i migliori metodi per estorcere confessioni. Pol Pot, che sosteneva che i contadini erano i suoi eroi e ripudiava ogni forma di crescita culturale e intellettuale, ridusse alla fame il popolo cambogiano, compresi quelli da lui definiti la ricchezza del paese, gli umili agricoltori. il denaro fu abolito, come la proprietà privata, nessuno poteva possedere nulla, tutto apparteneva ad Angkar, a cui si doveva devozione ed obbedienza, prima che alla propria famiglia. Cucinare per proprio conto era proibito, il regime prevedeva dei pasti in comune, che consistevano in riso annacquato che la gente riceveva da un enorme bacile, le razioni erano minime. Dopo il 1976 le razioni di cibo furono ridotte da 3 a 2 al giorno, lo stretto necessario per tenere in piedi i contadini, che lavoravano duramente dall’alba al tramonto nelle risaie per triplicare i raccolti, come da ordine di Angkar. Una richiesta disumana e impossibile da accontentare. La gente di città inoltre non sapeva come coltivare il riso (nemmeno Angkar lo sapeva), fu un disastro totale, in cui almeno 2 milioni di persone morirono di fame, di stenti e malattie, (un quarto della popolazione cambogiana), oppure giustiziate perché non avevano soddisfatto le richieste del partito. Per chi sopravvisse la vita cambió comunque per sempre. 
Il partito arrestava sempre piu' persone, includeva tutti i familiari, così,  dicevano, non sarebbe rimasto nessuno a potersi vendicare in futuro; “ arresto di parentela” veniva definito: “ quando si estirpano le erbacce è necessario eliminarle tutte, radici incluse”, era un motto di Pol Pot. Quando nel 1 Gennaio 1979 le truppe di liberazione vietnamite e cambogiane che avevano disertato il regime di Pol Pot, marciarono su Phnom Penh, al personale della S21 venne ordinato di distruggere tutte le foto e i documenti. Dovettero scappare prima di aver terminato, molte foto furono separate dai relativi documenti, e molte non sono ancora state identificate. Immaginate cercare qui un familiare tra migliaia di volti cosa deve essere stato per le famiglie delle vittime. Inoltre, durante i terribili anni bui in cui si svolsero i fatti, i Khmer Rossi, insediati al potere, inviarono centinaia di lettere ai cambogiani che vivevano all’estero, chiedendo loro di tornare in patria, per aiutare il paese, acconsentirono con gioia, ma una volta arrivati, furono imprigionati, torturati, costretti a confessare il tradimento al partito e il loro coinvolgimento con enti come CIA e KGB e le loro famiglie non li videro mai più tornare. Un pannello raccoglie le immagini delle vittime provenienti da paesi stranieri, nemici del partito e spie delle organizzazioni gia' citate, con le quali ovviamente non avevano nessun legame. Altre foto raffigurano i prigionieri torturati troppo duramente che spiravano prima che fosse firmata la loro esecuzione da Duch, le morti accidentali, queste foto servivano per fare rapporto ai superiori. Quando un prigioniero era sul punto di non resistere più alle torture, veniva chiamato un medico affinché lo tenesse in vita per prolungare la sua agonia e poterlo torturare ancora. Le medicine erano composte da acqua salata per disinfettare le ferite e un composto di farina aceto e zucchero, con cui si facevano pillole. Siccome i veri medici venivano giustiziati come traditori del regime, giovani dottori venivano formati in 4 mesi, facendo pratica di anatomia sezionando i prigionieri vivi. I reclusi fornivano anche il sangue per l’esercito, in una pratica chiamata “distruzione per il sangue”. Una guardia racconta: “venivano incatenati, un tubo in ogni braccio e si pompava. Da ogni prigioniero venivano riempite 4 sacche, dopodiché venivano lasciati appoggiati al muro, respiravano come grilli, le pupille dilatate, non sentivano più niente, scavavamo delle fosse e li seppellivamo”. 
L'edificio C, che un tempo ospitava le aule della scuola, è stato suddiviso in molte piccole celle di circa un metro quadrato, o grandi stanzoni utilizzati per le detenzioni di massa, i prigionieri erano incatenati tra loro, fimo a 9 insieme, dovevano stare fermi immobili e non emettere suoni, se le catene facevano rumore venivano picchiati. La superficie esterna dell'edificio è completamente ricoperta di filo spinato, dopo che un detenuto si era suicidato lanciandosi al piano di sotto, il suicidio era per lo piu' impossibile, solo alcuni riuscirono nell'intento, uno si conficco' la penna con cui stava scrivendo la sua confessione nel collo e un altro si verso' sul capo il liquido di una lampada a olio. Gli interrogatori servivano a far confessare alle vittime i loro tradimenti al regime di Angkar e di avere contatti , come gia' detto, con organizzazioni segrete di cui non avevano mai sentito parlare, il furto di cibo, di non aver completato un lavoro assegnato. Dopo giorni di tortura ininterrotti tutti confessavano e questo era sufficiente per essere giustiziati. Ad Angkar non interessava la verità, solo un motivo, estratto con la forza, per poter "schiacciare" chi era considerato un nemico del regime. Nell'edificio D le foto illustrano la filosofia della distruzione dei Khmer rossi, che cercavano di cancellare tutto ciò che aveva sostenuto la cultura cambogiana, a partire dai luoghi di culto, le credenze tradizionali erano proibite, la gente doveva credere solo ad Angkar. I monaci furono uccisi, i Templi diventarono centri di detenzione e raccolta di corpi. Cinema nuovi, vuoti e distrutti, le arti bandite, anche l'economia fu distrutta, tutto ciò che rappresentava crescita e modernità bandito, cancellato. I Khmer pensavano che la paura instillata nella gente e la rinuncia li avrebbero portati al successo. Fortunatamente sbagliarono. L'ultima stanza mostra cosa è successo alla fine, un' enorme fotografia ritrae una fossa comune, una delle oltre 300 esistenti in tutto il paese. I campi della morte di Choeung Ek furono creati quando non ci fu più spazio per seppellire le vittime nella S21. I detenuti venivano bendati e trasportati di notte su camion, poi arrivati ​​a destinazione, venivano fatti inginocchiare sul bordo di una fossa e uccisi con colpi alla testa, usando quello che capitava: una sbarra di ferro, una zappa, un martello, poi gli tagliavano la gola. Non gli si sparava, perche' i proiettili erano costosi e per mantenere il rumore al minimo. Sono stati stimate 20.000 morti a Choeung Ek, ma molti resti non sono stati ancora recuperati. Nell'ultima stanza che visito sono raccolti alcuni teschi, probabilmente appartenenti alle prime vittime della S21. 
Nel 2009, iniziarono le udienze per il caso 001 davanti alla corte della Cambogia,  giudici internazionali e cambogiani presiedevano la corte, la loro missione era quella di perseguire i capi e gli autori dei crimini commessi durante gli anni del potere di Angkar. Nel 2012, il Compagno Duch è stato condannato all'ergastolo, (solo dopo aver ricevuto una condanna da 35 anni, ridotta a 30 e aver presentato ricorso pero'!) il caso 002 ha portato i 4 capi sopravvissuti del partito Kampuchea al banco nel 2011. Tutti condannati all'ergastolo, a parte il ministro degli Esteri che morí prima della fine del processo e la moglie, cognata di Pol Pot, che sviluppo' una grave demenza senile durante il processo e fu esclusa dal procedimento. Pol Pot era già morto. 
Il museo è parte della memoria del mondo, l' UNESCO ha registrato quanto accadde qui, come elemento di interesse per l’intero genere umano. I documenti trovati qui sono testamento della disumanità che sarà ricordata per generazioni, in modo che non possa accadere di nuovo.
All'uscita contratto un passaggio da un autista di Tuk Tuk per continuare la visita ai campi della morte.
I killing fields di Choeung Ek sono stati la fine del viaggio dei prigionieri, a cui fu detto che sarebbero stati trasferiti in una nuova casa, furono ingannati, ancora, perche' venivano qui per morire. Eorse qualcuno di loro immaginava e provo' sollievo per l' imminente fine.  Nel 1978 arrivavano fino a 300 prigionieri al giorno. Monaci, monache, avvocati, professionisti, medici, scrittori, questi erano i nemici del regime Pol Pot, tutti da eliminare.
Il campo fu scelto perché era lontano dalla città e perché era già stato un cimitero della comunità cinese locale. I corpi nelle fosse venivano ricoperti di sostanze chimiche, come il ddt in polvere, che completava il lavoro iniziato dalle guardie, l'odore copriva anche il fetore della decomposizione. Gli alberi di palma da zucchero che circondano quest'area non erano usati per dolcificare o fabbricare tetti di paglia, ma gli steli che sostengono le foglie sono così duri e taglienti che a volte venivano usati per sgozzare i prigionieri. Oggi, dove sorgeva il campo della morte, dove venivano effettuate le esecuzioni, sono stati piantati degli alberi. Qui furono trovati 450 corpi, nel 1979 furono scoperte in tutto 129 fosse, su un'area di 2,4 ettari, contenenti oltre 20.000 vittime. Il motto di Pol Pot era "meglio uccidere per errore un innocente, che risparmiare per errore un nemico". Ogni 2 o 3 mesi i gestori del centro raccolgono i brandelli, le ossa e i denti spuntati in superficie a causa delle piogge, una teca raccoglie vestiti che il terreno fa riaffiorare dal 1980. Alcuni visibilmente appartengono ai bambini. Quando nel 1979 Pol Pot fu finalmente rovesciato, fuggi' coi suoi verso il confine thailandese, ma per oltre 10 anni, l'Occidente continuo' a temere la minaccia del comunismo e la Cambogia rimase isolata dal resto del mondo. I Khmer Rossi si riorganizzarono nella giungla, erano ancora considerati i governanti legittimi dalla maggior parte dei paesi occidentali, ricevettero un seggio alle Nazioni Unite, inviarono i loro rappresentanti a New York e ricevettero persino aiuti finanziari, mentre i cambogiani soffrivano per ricostruire il paese! Pol Pot rimase leader per altri 20 anni, finche' fu condannato agli arresti domiciliari, per poi morire un anno dopo, avendo comunque trascorso una vita tranquilla, con moglie, figli e nipoti.
Nel 1988 fu inaugurato lo stupa commemorativo di Choeung Ek, al suo interno si trova una teca di 17 livelli, 17 come il giorno in cui i Khmer Rossi entrarono a Phnom Pehn. I primi 10 livelli conservano almeno 9000 teschi, nei livelli superiori sono conservate le ossa più grandi, le più piccole, sono state lasciate nel terreno, perché non c'era abbastanza spazio per esporle tutte. Lo stupa è una struttura buddista, usata per contenere reliquie sacre e in questo caso, oltre ad essere più grande della media, è decorata con simboli sia buddisti che induisti. Sotto il tetto, in ogni angolo ci sono grandi uccelli Garuda, animali mitologici, che mescolano le caratteristiche di un grande uccello, un leone e un uomo. Il grande Dio Vishnu cavalca un Garuda. Negli angoli sporgenti del tetto si scorgono dei serpenti magici noti come Naga, hanno code dorate che si attorcigliano a spirale fino alla cima del tetto. I Naga secondo la leggenda hanno generato il popolo Khmer e sono spesso rappresentati con 7 teste. Tradizionalmente sono nemici dei Garuda, ma quando si incontrano, come qui, diventano un simbolo di pace. Mentre lascio i campi di sterminio a bordo del tuk tuk che mi aspetta fuori, un sole rosso di fuoco tramonta sui campi, solo che oggi non riesco ad apprezzarlo, oggi il rosso non mi piace più tanto come colore.
                                      



Giornate intere tra le Dogane, il poco interessante viaggio da Saigon a Phnom Penh



27/11/2018
Alle 8:30 sono pronta a salire sul bus che mi porterà al di là della frontiera, in Cambogia, per l’ultima parte del mio viaggio. Il mio compagno di sedile ha una faccia che non riesco ad inquadrare, solitamente sono brava a capire le nazionalità delle persone, ma alcuni paesi mi traggono in inganno, probabilmente perché ci sono mix di origini nei loro tratti somatici che depistano. Comunque mi ha rubato il posto; il lato finestrino l’ho espressamente prenotato io! L’assistente del bus viene a ritirare i passaporti, io ho già il visto elettronico per la Cambogia, il mio compagno paga sul momento, intuisco dal suo sguardo che sta cercando di capire se il costo è maggiorato, come ogni volta, qui in Vietnam, così noto che allunga all’omino del bus un passaporto italiano. Lo guardo e gli dico che il prezzo è lo stesso che ho pagato io. Mi risponde in inglese, che capisce abbastanza la mia lingua ma non parla italiano, suo padre lo è, per questo ha doppio passaporto, oltre a quello brasiliano.
Iniziamo a chiacchierare e la guida lenta e il traffico di Ho Chi Minh passano in secondo piano. Verso le 11:00 arriviamo alla frontiera, ci fanno scendere e l’omino del bus si perde tra la folla con i nostri passaporti.


Non ci dice niente, ne dove aspettare, ne se dobbiamo passare il metal detector o se prima ci deve ridare il passaporto. Abbandonati a noi stessi. Per toglierci di dosso le donne con in mano le mazzette di Riel Cambogiani da cambiare con i Dong vietnamiti, passiamo il controllo, anche se nessuno guarda il monitor e nessuno ci controlla le tasche. Il nostro omino ogni tanto spunta e chiama qualche nome, che può tornare sul bus, dopo circa 30 minuti siamo tutti a bordo, tranne un ragazzo tedesco che ha perso l’evisa e non so quali problemi ha con una moto comprata in Vietnam. Lo aspettiamo un’eternità. Il bus riparte, facciamo 10 metri e si scende di nuovo, stavolta per passare la dogana Cambogiana..ci guardiamo straniti.


Entriamo nell’edificio, passiamo tra un corridoio di addetti che neanche ci guardano e usciamo dalla parte opposta..boh. Risaliamo sul bus ma del nostro omino non c’e traccia. Il bus si muove senza di lui e senza il ragazzo tedesco. Si ferma un paio di km dopo, in uno pseudo ristorante dove riescono a mangiare solo l’autista, e una coppia vietnamita con neonato. Nessun occidentale si azzarda a ordinare niente. Il mio compagno di sedile ne viene da un avvelenamento di cibo e guarda disgustato le pietanze dietro al vetro. Io mangio una scatola di Ritz comprati in precedenza.



Alle 14 finalmente ripartiamo, i commenti di altri viaggiatori sul passaggio della frontiera che interrogherò in seguito saranno entusiastici, in 10 minuti tutti hanno ripreso il viaggio! Ovviamente! Alle 17 finalmente arriviamo a destinazione per la giornata persa più persa della storia. A parte questo Phnom Penh mi pare più bella delle città Vietnamite, e cosa importantissima, il traffico qui è più lento e non suonano il clacson di continuo, come dei maniaci del rumore. Purtroppo lungo il tragitto non ho potuto vedere molto dalla mia posizione, ma ho notato distese di campi e casette con i porticati, mucche al pascolo, diverse dai bufali vietnamiti e bellissimi tetti con le classiche punte in su, tipici di questo paese.


Mentre il Tuk Tuk mi porta sulle rive del Tonle Sap, che ad occhio nudo vedo congiungersi col Mekong, passiamo davanti a bellissimo edifici: il Palazzo Reale, il Museo Nazionale, la Pagoda d’argento. Non vedo l’ora che sia domani per visitare questo nuovo paese..dopo quasi due mesi di Asia, la mia voglia di continuare non si è placata. Prendo in considerazione la possibilità di tornare a Gennaio..


martedì 27 novembre 2018

Giornata mondiale dei Templi a Saigon



La mattina del 25/11 la tempesta, già fin troppo in ritardo, non ce l’ha fatta più ad aspettare ed è arrivata alle porte di Saigon, passando dalla costa, come aveva promesso, dopo aver rosicchiato la terra sotto i piedi alle linee ferroviarie, scoperchiato tetti, sradicato alberi e fatto somigliare Nha Trang ad una succursale di Venezia, ma senza passerelle rialzate.
I rovesci sono costanti, quindi non c’è altro da fare che stare a letto con un buon libro, ed io fortunatamente ho l’uno e l’altro! La giornata passa così, tra uno sbadiglio e l’altro e una passeggiatina alla vetrata per vedere cosa succede in strada.


Il giorno dopo invece, anche se il cielo è grigio, non piove, perciò mi avventuro in strada per seguire il mio obiettivo della giornata: visitare tutti i templi della citta, includendo il vecchio quartiere cinese di Cho Lon.  Mi aspettano molti chilometri da percorrere.
Il primo tempio è molto vecchio e le decorazioni del tetto, contro questo cielo plumbeo acquisiscono ancora più fascino, inoltre la cima del cancello che lo racchiude è avvolto da filo spinato, particolare un po’ atipico per un luogo di culto. Un vecchio custode sta seduto tra il portale d’ingresso e il piazzale, e fa colazione con una tazza di zuppa e spaghetti, in compagnia di un cane sbrincio.


Continuo a camminare tra le vie tutte uguali ragionando sull’edilizia vietnamita, che comunque, nonostante non si possa descrivere con grandi elogi, è molto più decorosa rispetto a quella vista in Cina,  Thailandia e Taiwan. Un tempio non contemplato sulla mia lista spezza la monotonia del cammino.


Seguo il percorso su Google maps, con le tappe che ho inserito in ostello, quando avevo la connessione e ne approfitto per elogiare l’applicazione, perché senza, mi sarei persa ogni giorno passato in Vietnam. Questo non solo perché io, come più volte ricordato in altri post di viaggio, non ho il senso dell’orientamento, o perché dovendo scegliere tra due direzioni prenderei sempre quella sbagliata, ma anche perché in Vietnam non amano i cartelli stradali.


Sono un po’ come i semafori, inutili perché non li rispetta nessuno, perciò perché metterli! Google e i satelliti lo sanno e quindi grazie, per avermi dato la possibilità ogni giorno di arrivare dove volevo: a piedi, in moto e col pensiero, quando la sera pianificavo la tappa del giorno dopo e scoprivo che era fattibile.
Per arrivare al terzo Tempio, il navigatore mi fa passare in mezzo ad un piccolo e pittoresco mercato, dove ho l’occadione di fare qualche scatto interessante alle venditrici di pesce, alle verduraie e alle macellatrici di carne.


Questo tempio, pur non essendo niente di particolare, deve essere segnalato sulle Lonely Planet e affini, perchè è preso d’assalto dai turisti di mezz’età. Me ne vado in fretta, perché come già detto non amo avere gente nelle mie foto e mi ritrovo, dopo mille saliscendi pericolosi dai marciapiedi, scavalcando spazzatura, gente che cucina e pezzi di marciapiedi sconnessi, davanti al teatro di Cho Lon.



È deserto e bellissimo, pieno di murales sullo stile delle vecchie cartoline francesi delle località balneari e ritratti di bellissime attrici asiatiche. Mi fermo a mangiare in un locale che fa prevalentemente ravioli, già che siamo nel vecchio quartiere cinese. Mi rimetto in marcia e trovo un altro bel tempio e una chiesa Cristiana che somiglia vagamente ad un castello disneyano. Tagliando poi per una stradina interna, per sfuggire un po’ allo snervante traffico e all’inquinamento acustico, assisto alla pesa di un gallo in mezzo alla strada.


La cosa assurda è che è il pesa-Galli a guardare me stranito, come se lui, li accucciato sull’asfalto stesse facendo la cosa più normale del mondo. E poi un gallo in piena citta..ma perché stupirsi, visto che sono pure passata davanti a botteghe con i polli che scorrazzavano sul marciapiedi. Per non parlare della venditrice di uccelli, che quando li vende li infila in un sacchetto di carta come fossero pomodori!


Arrivo al tempio più bello, Giac Lam Pagoda, deserto, dove è in corso una preghiera buddista molto musicale e coinvolgente, il Monaco recita scandendo il tempo su un campanaccio di legno, i fedeli gli fanno eco, mentre gli altoparlanti diffondono il canto per tutto il cortile. Un grasso Buddha pacioso assiste soddisfatto. Il prossimo Tempio si trova sulle rive del fiume, è parecchio lontano e sono stanca.


Decido quindi di chiamare un Grab, e qui vado a spiegare quest’altro miracolo vietnamita. Siccome il traffico è allucinante, gli autobus quasi inesistenti ( e comunque non si sa dove fermino nè che tratta facciano quindi sono impossibili da gestire per un occidentale ) e i taxi costosi, ecco l’invenzione che risolve la vita, mototaxi in continuo movimento per la città, contattandoli tramite app, inserendo la propria posizione e la destinazione, la tariffa compare sullo schermo insieme alla faccia del motociclista che ti verrà a recuperare in pochi minuti. Vestono tutti la giacca verde e il casco in tinta con la scritta Grab, ti portano a destinazione in sicurezza, paghi una sciocchezza d tanti saluti. La cosa eccezionale è proprio l’immediatezza.


L’ultimo tempio, che doveva essere quello su cui avevo riposto grandi aspettative è una ciofeca, quindi, essendo le 17, dichiaro chiusa la giornata a sfondo religioso e me ne torno in ostello, per prepararmi alla mia ultima cena vietnamita, e siccome ho 600.000 Dong da spendere (circa 22€), ho deciso che mi tratto bene e vado in un posto chic, solitamente spendo dagli 80.000 ai 140.000 per un buon pasto!


domenica 25 novembre 2018

Saigon e gli orrori della guerra



23-24/11/2018
Mi preparo con calma e alle 11:45 uno shuttle bus mi porta alla stazione, da cui parte il mio sleeping bus per Saigon. Viaggiare sdraiati è molto comodo e ti permette di appisolarti di tanto in tanto, quando i panorami non sono interessanti. Entro le prime due ore arriviamo a Bao Loc, dove ci fermiamo per mangiare qualcosa. Poi sono altre 5 ore, di cui l’ultima nel traffico della periferia per raggiungere il centro città. Prima di vedere da lontano le luci della grande Saigon, passiamo in mezzo a svariati villaggi, tra cui uno particolarmente devoto a cristi e madonne, che espongono statuette di circa un metro di altezza, sulle balaustre delle case a due piani. Tutti rigorosamente fronte strada, con le braccia aperte e le aureole in testa.


La quantità di chiese pro capite è imbarazzante. Ogni isolato ne ha una, e queste, sono solo quelle che posso registrare io, passando lungo la strada principale! Finalmente arriviamo a destinazione e si capisce subito che Saigon è il gran “bordello” del Vietnam: luci festose, grandi locali, musica spacca timpani, insegne di birra che attirano i giovani scapestrati in cerca di sbronze e di qualcuno che gli sfili il portafogli. Per fortuna il mio ostello è a 100 metri dalla fermata del bus e si trova in una stradina interna, silenziosa ed estranea al delirio.
Esco giusto per un paio di Tacos a fianco al mio ostello e mi rifugio in camera, anche perché la strada pedonale, con tanto di luminaria che lo attesta, è in realtà trafficata come le altre, perciò non è di mio interesse.


La mattina dopo mi alzo e noto che il cielo sta dando le prime avvisaglie di pioggia, anche se in realtà  sono spruzzi sporadici che durano pochi minuti e rendono le temperature più umane. Parto alla ricerca di una lavanderia, ho un alterco con un gayssimo lavandaio, che non vuole farmi il bucato perché non è felice, del fatto che mi rifiuti di considerare che 2kg è 100 gr. rientrino nella cifra dei 3 kg e non dei 2. Con la complicità di una sgamata donna vietnamita, che ripudia l’atteggiamento approfittatorio nei confronti degli stranieri, cerchiamo di fregarlo, facendo consegnare a lei i miei panni sporchi, ma quello riconosce la borsa e per tutta risposta, schecca di brutto e ci tira la borsa dietro! Trovo un’altra lavandaia più simpatica a cui lasciare la mia roba, così posso andarmene a spasso col naso in su a vedere cosa ha da offrire Saigon. L’itinerario classico prevede la Chiesa di Notre Dame, il vicino ufficio postale, che è più che altro un ricettacolo di souvenir, il palazzo della riunificazione e il teatro dell’ opera, tutte strutture di stampo occidentale, lascito dell’architettura francese di epoca coloniale.



Se Hanoi domina il Nord del paese, Saigon è il puro sud, una antica , e l’altra relativamente moderna. Mentre Hanoi è tradizionalmente conservatrice, Saigon è molto più disposta ad abbracciare nuove tendenze e costumi. E forse questo suo dinamismo, giovinezza  e sguardo rivolto alle novità, la rendono il luogo perfetto per cene luculliane, shopping e divertimento, ma possiede molto meno interesse storico e culturale rispetto alla vecchia Hanoi.
Alle 15 arrivo al museo dei residuati bellici, che è poi il motivo per cui sono a Saigon.


Seguo la visita procedendo per ordine, quindi salgo al secondo piano dove c’è la stanza 1, dove vengono narrati i fatti: le cause del conflitto per liberare il paese dall’oppressione francese, l’intervento americano in aiuto a quest’ultima, la macchinazione degli Stati Uniti per dividere il paese, instaurando un governo fantoccio per combattere il comunismo, il falso attacco che il Presidente Johnson utilizzó come casus belli per dare il via alla guerra, conosciuto con il nome di “incidente del Golfo del Tonchino” in cui gli americani dichiararono di essere stati attaccati da 3 torpediniere nordvietnamite, mentre erano in ricognizione segreta e di aver risposto al fuoco.


In aiuto intervennero 4 crusader che a colpi di razzi ne annientarono una. Due giorni dopo dissero di aver captato l’intenzione delle rimanenti flotte nemiche di passare al contrattacco e le silurarono, quando le successive ricerche ufficiali, stabilirono con assoluta certezza, che neanche il secondo attacco nordvietnamita si era mai verificato.


La stanza numero due si chiama Requiem e contiene interessanti prove fotografiche dell’orrore della guerra, immortalate dalle attrezzature di fotografi vietnamiti, francesi e americani che non hanno più fatto ritorno a casa, come Robert Capa e Dana Stone. Le stanze si susseguono, le immagini sono forti e lo stomaco è stretto in una morsa. Ci sono gli ingrandimenti di grandi giornali, come life, che riportano foto a colori  e articoli su quello che succedeva in Vietnam, una guerra troppo vicina per non fare paura.


Un’intera sezione è dedicata alle conseguenze dell’ utilizzo del defoliante Agente Orange, con cui gli americani hanno irrorato per anni il paese, conseguenze che non si sono solo accanite sull’ambiente, ma sulle persone e sulle future generazioni, con malformazioni fisiche e mentali di ogni tipo. Le foto sono dolorose e inquietanti. Anche quelle che mostrano una natura arida e secca, rasa al suolo, uno scenario post apocalittico che per fortuna si è ripreso.


Ma le date delle nascite di bambini deformi sono ancora troppi attuali. La stanza dedicata ai crimini di guerra è aberrante, un sunto difficile da guardare sulle crudeltà immortalate a vita sulle pellicole dei fotografi, in cui la bassezza dell’essere umano non ha vergogna a mostrarsi sorridente davanti ai suoi trofei. Alcune immagini riportano i commenti dei reporter che le hanno scattate, aggiungendo, se possibile ancora più orrore a quel che non c’è bisogno di immaginare.


Le sale sono immerse nel silenzio, l’orrore riesce a zittire chiunque, come silenziosi devono essere rimasti a lungo i villaggi prescelti per l’operazione Search and Destroy, per la quale non è necessaria la traduzione nè l’approfondimento.
Me ne vado dopo tre ore, quando i carri armati all’esterno non fanno che provocarmi fastidio e timore, tanto quanto gli enormi velivoli posizionati nel piazzale antistante il Museo. L’unica punta di leggerezza me la regala un gatto, che si toeletta sui cingoli di un tank americano, il resto sono memorie nate oggi è che mai più mi lasceranno, anche se mi auguro di cuore di non viverle mai in prima persona.






sabato 24 novembre 2018

Run to the hills: fuga dalla tempesta verso Da Lat



21-22/11/2018
Mi alzo con l’intento di fare l’ultimo giro in moto per raggiungere il Tempio di Lon Song, per vedere il grande Buddha bianco seduto sulla collina, ma l’accesso è chiuso e quindi non mi resta che restituire il mio bolide a Jimmy della Easy Riders. Preparo lo zaino e con Queenie di Hong Kong, raggiungiamo l’agenzia dove verrà a recuperarci il bus per Da Lat.


È quasi al completo e quindi mi tocca un posto sfigato che balzella per tutta la durata del viaggio. I bus vietnamiti sopperiscono alla scomodità con sospensioni superprestanti. Lasciamo la città per inerpicarci su stradine tutte a curve, tra una folgorante vegetazione, mentre il sole splende e non sembra possibile che nel giro di qualche giorno possa abbattersi un’altra tempesta tropicale a disturbare questa quiete.
Attraversiamo villaggi con case col tetto di lamiera, che non danno l’idea di poter affrontare agenti atmosferici impetuosi. Per un breve tratto di strada, la nebbia ci attraversa e scrutiamo lontano in cerca di un temporale, ma il sole si fa largo di nuovo e le cascate sotto di noi scendono in un velo, dopo un salto vertiginoso. Tutto intorno, sotto la vegetazione, la terra è rossa e fertile, iniziano a comparire i primi vitigni, ma soprattutto immense piantagioni di fragole. Le donne col cestino sulle spalle lasciano i campi per fare ritorno a casa. Il traffico impazzito dei motorini ci incanala in un flusso caotico tra il suono incessante dei clacson. Da Lat ci accoglie con un grande lago e due strutture a forma di fiore, ricca di giardini, ortensie e case pazze.



Mentre camminiamo verso l’ostello, io e Queenie scopriamo di aver già condiviso una stanza a Da Nang, oltre a quella delle scorse notti a Nha Trang, e con questa faranno tre. Il campanile a punta di una chiesa lasciata dai francesi, da al paesaggio la consona connotazione montana. Binh, il nostro giovane host, ci accompagna per le strade del villaggio alla scoperta del cibo locale, con cui è cresciuto e che adora. La prima tappa è su un marciapiede, occupato da un calderone di tizzoni ardenti su cui la Lady Pizza arrostisce un disco di pasta di riso circolare, condendolo con uovo, spezie, cipollotto, formaggino “la vache que rie”, unico prodotto caseario contemplato nel paese, salsa di pomodoro e striscioline di carne di maiale.


Lo avvolge su se stesso con maestria ed è pronto da gustare in tutta la sua incredibile squisitezza. La seconda tappa prevede il Curry d’anatra, una zuppa di verdure lievemente piccante in cui intingere abbondante Banh mì, la baguettina anch’essa lascito dei francesi, che rende il Vietnam unico paese asiatico in cui si può accompagnare il pasto col pane, anziché l’onnipresente e stucchevole riso.


A questo punto Queenie esprime il desiderio di assaggiare un dolce e io già tremo, quando nel locale preposto alla consumazione del dessert, non è presente nè cioccolato e tantomeno la panna.
A Lei capita una tazza che ha tutta l’aria di essere fango, mentre a me tocca una pappetta di riso dolce con semi di loto. La fidanzata di Binh opta per una tazza in cui galleggiano uova di quaglia bollite nel thè.


Spero che la mia amica non abbia desiderio di altro, quindi facciamo una passeggiata al night market che peró si rivela scialbo, rispetto a quelli taiwanesi e thailandesi.
Torniamo in camera a studiare per il giorno seguente. Io farò un bel giro intorno al lago, tra la calura spossante e poi mi perderò per 2 lunghe e interessantissime ore, tra le scale e i cunicoli della Hang Nga Crazy House di Madame Dang Viet Nga, figlia del defunto segretario generale del partito comunista del Vietnam, Truong Cinh.





L’idea della eclettica architetta era quella di costruire un ambiente che si sposasse e diventasse un tutt’uno con la natura circostante, per riavvicinarsi alla madre terra e avere l’illusione di vivere dentro una grande foresta a misura umana, senza che essa ne prendesse il sopravvento nè che la deturpasse, ma che fosse un invito per la comunità alla comunionione tra i due elementi.


Ovviamente fu considerata folle e molto criticata, osteggiata in tutti modi nella realizzazione del progetto, che finanzió con le proprie forze e grazie alle sovvenzioni di parenti e amici. Il suo lavoro alla fine fu approvato e la casa è in continua espansione, entrando a pieno titolo tra le dieci strutture più bizzarre al mondo. Impossibile non trovare analogie tra la sua invenzione e le opere di Gaudì e il genio visionario espresso nelle opere di Salvador Dalì.


Come ogni attrazione in Vietnam, anche la Crazy House è presa d’assalto da masse disordinate di cinesi chiassosi che si urlano da un tetto all’altro e si incastrano lungo le strette passerelle, e da matrone russe che letteralmente rimangono incastrate nei passaggi angusti facendo presagire imminenti crolli delle strutture costrette a sopportare i loro pachidermici culi.


All’uscita compro due cestini di fragole da due donne vietnamite, così per la prossima colazione io e Queenie ci saluteremo con un nutrientissimo frullato. Le proseguirà impavida sulla costa, mentre io raggiungerò Saigon, attualmente Ho Chi Minh City, per quella che sarà l’ultima tappa del mio soggiorno Vietnamita.




giovedì 22 novembre 2018

Nha Trang, devastazione e Russi



19-20-21/11/2018
Il Vietnam del sud è scosso da una tempesta tropicale.
Alcuni villaggi vicino a Nha Trang sono stati colpiti duramente da acqua, venti, frane e collassi e piu di 10 persone hanno perso la vita.
Lo scopro qui a Nha Trang, che ho raggiunto ignara di tutto, dopo aver trascorso 4 notti a Quy Nhon senza poter godere di molto, a causa delle continue pioggie. Il fatto è che, nonostante l’intensità delle precipitazioni, non ci sono stati problemi li e ne ho approfittato per riposarmi e rimettermi in sesto con l’aiuto di un avvincente romanzo di oltre 400 pagine.


Poi peró mi sono stufata e sono andata a prendere il treno. Sulla linea abbiamo collezionato il solito ritardo di circa 1 ora e mezza, ma i panorami che ho potuto veder sfilare dal finestrino, finchè c’è stata luce, erano veramente meritevoli dei sorrisi che mi hanno indotto.
Se non bastasse, a rendere unico il viaggio, ci ha pensato un terremoto di bambina che per 4 ore non è mai stata ferma, bellissima e buffissima, faceva di tutto per attirare la mia attenzione e farsi guardare.


E per l’ultima ora ho avuto come compagna di sedile una anziana signora che anche se non parlava la mia lingua, mi ha fatto capire che ero strana perchè ho il naso lungo. Effettivamente guardando gli altri passeggeri del vagone ho notato che avevano tutti dei nasi molto piccoli.
Appena scesa a Nha Trang si è scaricato un 10 minuti di acquazzone, cosi ho preso un taxi fino all’ostello. Il dormitorio al primo piano era pieno, cosi ho passato la notte da sola in quello del secondo piano. Ed è stato proprio Hai Son, il proprietario, a raccontarmi dei tremendi giorni precedenti il mio arrivo.


Questa mattina invece splendeva il sole, cosi ne ho approfittato per noleggiare una moto con l’intento di spingermi a Nord alle belle spiagge di Cam Rah, ma lungo la strada ho trovato un disastro. Inizialmente solo tanta polvere e sabbia che mi si infilava negli occhi, nonostante gli occhiali da sole, anche questi pazzi furiosi non rallentano neanche con l’acqua e il fango per terra, che infatti ho incontrato poco dopo.


L’intera carreggiata era ricoperta di fango e radici, ho dovuto fermare ls moto per disincastrare una liana dalla pedalina. Più andavo avanti e piu peggiorava la siruazione. Camion enormi in continuo andare e venire, carichi di detriti tolti dalla strada. Finchè la carreggiata é diventata unica per i due sensi, perche quella a lato monte era completamente invasa da enormi roccie e da interi alberi. Ovviamente c’è stato di che imprecare, perchè nessuno, per nessun motivo arresta la sua folle corsa, anche se non ci si passa. Mi hanno fatto davvero incazzare oggi.


Quando procedi lentamente perchè ci sono pochi centimetri di strada sgombra e il resto è fango scivoloso, o un fiume d’acqua, o pietre sulla careggiata, tu strinzo che procedi in senso contrario, ti vorrai fermare per evitare che mi ammazzi? Quanti Cristi e Madonne e quante maledizioni! In un’ora abbondante, sotto il sole cocente arrivo in vista del mare, ma è uno scempio, spazzatura ovunque e detriti portati dal mare. Non è proprio giornata da spiaggia. Meglio tornare indietro. La situazione dei resort sul mare è tragica. Finalmente, sporca di polvere e sabbia riesco a tornare in città e mi fermo lungo la spiaggia cittadina.


Qui hanno gia pulito ma il mare è nero ed inavvicinabile. Resto a respirare un po di brezza all’ombra di un albero. Poi decido di andare a visitare Po Nagar, il tempio Cham con le sue torri rosse, di mattoni sovrapposti senza collanti.
Anche a Quy Nhon, prima si andare al treno, ne ho visitato uno, ma molto piccolo, con solo due torri. I Cham erano di religione Indù, si dice di origini Maleyo-Pilinesiane, che arrivarono in queste zone dal Borneo. Abitarono le zone centrali del paese e le testimonianze del loro impero sono sparse tra Laos, Vietnam e Cambogia. È anche vero che non ebbero granchè fortuna con i vicini, trovandosi a fronteggiare attacchi cinesi, giavanesi, Khmer e Dai Co Viet.


Questo perchè il potente regno Champa fioriva grazie ai commerci di sete, spezie, avorio e aloe, tra Cina, India, Indonesia e Medio Oriente. Quando arrivo al tempio capisco subito che sarà dura avere foto senza intrusi, ma mi sento di accettare la sfida anche stavolta e studiando qualche escamotage, riusciró nell’impresa. Per tornare in ostello percorro il ponte panoramico sulle acque del fiume Cai, tra un traffico allucinante, in cui devo ritagliarmi un angolino e finire inglobata nella corrente che mi trascina fino al centro di Nha Trang.


Nha Trang la Russa. Non si capisce perchè, ma è stata eletta succursale ufficiale di Mosca e quindi lungo le sue strade è una sfilata di donnoni massicci, bianchicci e biondicci. Gli uomini ricoprono il clichè del truzzone, spesso e decerebrato, con la testa quadrata e la mascella serrata, oppure del lungagnone losco, con l’occhio scaltro e la sigaretta sempre in bocca. Quel che è certo è che di figone bionde, alte due metri e col fisico statuario, qua, non ce ne sono.
Mi informo sulla situazione metereologica e Hai Son mi consiglia di allontanarmi dalla costa, visto che la nuova ondata di maltempo tornerà a picchiare su Nha Trang ( e sui Russi ) da Venerdi (23/11). Quindi è deciso..niente mare per me, mi rifugio nelle verdi valli di Da Lat, tra fragole, ortensie e cascate.