domenica 25 ottobre 2015

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Arriviamo alla città di Palenque dopo un viaggio notturno di 6 ore circa, come potrebbero arrivare dei quarti di bue ad una macelleria: refrigerati!
Non capiremo mai la motivazione delle temperature siberiane dei bus da turismo messicani, salvo la necessità, forse, di sterminare eventuali microbi e batteri. Terry sposta la tenda alle prime luci dell' alba, guarda fuori e in un improbabile genovese impastato di sonno esordisce con la prima frase del giorno: Ciove..tanto pe cangià! Epico.

In ogni caso eccoci qui, ore 7 del mattino, Palenque, il grande sito Maya avvolto dalla jungla.
Visto il buon tempo che ci accompagna decidiamo di fare un richiamino di sonno alla posada Aguila Real che ci darà ricovero per la notte, anche se noi ci presentiamo appena dopo il canto del gallo. La camera c'è! Siempre viva la bassa stagione! Verso mezzogiorno ci alziamo e andiamo a replicare l' esperienza del pollo asado che abbiamo smembrato con le mani sul bus diretto a Mèrida. Stolti noi che crediamo che consumando all' interno del cubicolo di cemento che fa da negozio ci daranno forchetta e coltello..macchè..non ce n' hanno proprio! E vai di mani anche stavolta!
Scongiurato per un soffio il pericolo di usare l' acido per la tazza del cesso come sapone lava mani, intelligentente posto sul lavandino, siamo pronti per montare su un collectivo che in pochi minuti ci porta all' ingresso delle rovine, dove ci assaltano guide, venditori di ponchos antipioggia e spacciatori di presunti funghi allucinogeni. Carlos è il nostro Cicerone per oggi, una fila di denti bianchi sotto, una ben più contenuta fila di denti gialli sopra..mah..impianto dice Terry. E sia.
Quello che vedremo oggi è il 5% del patrimonio di Palenque, quello visibile, el descubierto, il restante 95% se l' è inglobato la jungla, e per i messicani è meglio così. Un' intera metropoli è addormentata sotto strati di terra e radici che la proteggono e la conservano dal deterioramento, dalla profanazione degli uomini. Perchè meglio così? La risposta sta nel precedente destino di Palenque, condannata fin dall' inizio: il disboscamento per l' edificazione che venne perpetrata dai Maya, portò all' impoverimento del terreno, eliminando la jungla eliminarono anche la fauna ed alterando l' ecosistema i proventi dati dalla terra iniziarono a scarseggiare, questo è quello che accadrebbe di nuovo se si costringesse la natura ad arretrare ancora, ma fortunatamente il Messico non ha abbastanza fondi per un' opera di tali proporzioni e l' antica città di Lakamba (Palenque è il nome datogli dagli spagnoli) può continuare a far brillare il suo splendore nelle profondità della jungla tropicale.
Abbiamo deciso di non spendere altre parole sul palazzo di Pakal o sulla piramide che contiene nelle sue profondità la sua tomba per evitare nozionismi e inutili descrizioni che si possono trovare ovunque digitando in rete le parole chiave, ma solo cercare di trasmettere il nostro stupore arrivando alle rovine dopo una breve passeggiata tra alberi con le spine sulla corteccia e piante dal tronco nudo e rosso. Immaginate di camminare in mezo alle piante, e mano a mano che la jungla si assottiglia e ci si avvicina alla radura appaiono tra le fronde i gradoni del palazzo,  imponenti, vertiginosi, perfetti. Gli altorilievi presenti nella corte centrale sono impressionanti, così come i canoni di bellezza della civiltà Maya a cui i nobili non rinunciavano di sottoporsi fin dalla tenera età: un paio di tavole di legno per appiattire la testa, una pietra tra gli occhi per provocare un' affascinantissimo strabismo, limatura dei denti per sorrisi accattivanti, il tutto condito da accoppiamenti tra consanguinei, per preservare la purezza della specie, salvo poi generare figli con 6 dita per mano o arti di lunghezze diverse. Il commento di chiusura di Carlos è "cazzarola! Cerchiamo di convincelo a dire " Belin belino!".
Quando dopo un' ora e mezza ci lascia liberi di vagare per il sito, ci dirigiamo verso le cascate de la Reina, belle bellissime, non fosse per le famiglie di minchioni che ci precedono e decidono di prendere la residenza sul ponte de los murcielagos, scattandosi selfie a ripetizione mentre tentano di finire in acqua saltando come scimmie per far dondolare il ponte. Io e Terry aspettiamo diligentemente il nostro turno, ripetendoci che dopo il prossimo scatto se ne andranno, invece gli stupidi padri si mettono a fare le trazioni con i cavi che sorreggono il ponte. Alla fine, straziati dall' attesa, li scalziamo in malo modo e ci scattiamo qualche foto anche noi.
Lungo la discesa e l'abbandono del sito realizziamo quanto fascino e quanta ricchezza possa regalarti la natura nella sua incontenibile voracità, questo è il Chiapas per noi, per l' idea che ce ne siamo fatti: una regione ostica per i suoi abitanti, selvatica, prepotente nell' esplosione della sua vegetazione rigogliosa, ricca di bellezze solo sue che però ancora non bastano a cancellarne il passato ribelle e sovversivo, neanche quando l' epicentro della sua disobbedienza si è trasformato nella versione pallida di una località di montagna alla moda.

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