lunedì 18 febbraio 2019

Viaggiando in minibus con i locali


Sono due giorni che scelgo brevi spostamenti usando piccoli bus, la prima volta è stato un caso; volevo andare da Bagan a Monywa, non perché ci fosse qualcosa di estremamente interessante, ma perché era una cittadina minore. Quando il Tuk Tuk mi ha lasciato davanti all’ufficetto improvvisato della compagnia, una scrivania su una veranda tra la polvere della strada, con sopra un telefono e i blocchetti dei biglietti, ho pensato che avrei viaggiato tra polli e provviste. Pensandoci, in un secondo ho capito che non mi sarebbe dispiaciuto, anzi, mi sono sentita una privilegiata ad essere l’unica straniera.


Il minibus arriva, giá mezzo pieno, e la gente scende a rifocillarsi. Mangiano zuppe, noodles, riso, ma quando è l’ora di salire a bordo sono tutti pronti a prendere i loro posti. Oltre agli spazi regolamentari, lungo il corridoio ci sono degli sgabellino di plastica rosa, che verranno occupati dalle persone che saliranno lungo il tragitto, così si formeranno file compatte, dove si sta spalla a spalla, ginocchio contro ginocchio, mentre il minibus corre sulle strade polverose, suonando a tutti quelli che ci precedono, per avvisarli che stiamo per superarli, ma a anche a quelli che vanno in senso contrario, per assicurarci di essere notati.


Viaggiando a fianco al finestrino vedo un sacco di cose, osservo la gente, quella che vive nelle capanne lungo la strada, guardo le mucche legate con la corda corta agli alberi, le vedo stare immobili, a volte invece passeggiano sulla strada, come mi immagino facciano le mucche sacre in India, in piccoli branchi, si muovono lente e tranquille, il traffico le sfiora ma non sembrano curarsene. Alcune le guardo bere in abbeveratoi scavati nel legno e poi fissati a due alberi, con le corde, sembrano canoe strette e lunghe.


Ci sono tratti in cui le case non ci sono, e allora si vedono grandi distese di erba verde e palme altissime, a centinaia, a perdita d’occhio. Oppure passiamo davanti alle risaie e allora si vedono gruppetti di persone inginocchiate coperte dai cappelli a cono, che strappano con le mani gli steli verdi. Mi piace che indossino vestiti colorati, spesso desidererei avere un dispositivo fotografico montato dietro gli occhi che mi permettesse di fotografare tutto ciò che vedo, per non dimenticarlo: quando abbasso le palpebre, scatto e imprimo l’immagine nella memoria per sempre.


Osservo tutto il tempo, mentre viaggiamo. Soprattutto mi piace guardare le persone che superiamo, quelle sulle due ruote. Coppie, famiglie, molte donne e ragazze si siedono di traverso, come usava una volta anche da noi. Non si tengono, hanno un grande equilibrio e una grande eleganza, mi piace guardare i loro vestiti colorati, in cotone, in raso, l’abito tradizionale è composto da due pezzi, spesso in abbinamento.


Le donne birmane hanno una gran classe, ma sono prive della vanità, e per questo sono bellissime. I loro capelli scuri, lisci e lucidi, si muovono in morbide onde al vento. Hanno braccia sottili e delicate, guardo le mani posate in grembo, mentre sedute sui sellini sembrano perse nei pensieri. Gli uomini portano la gonna come le donne, ma non sono affatto ridicoli. Soprattutto i ragazzi, che spesso hanno lineamenti molto delicati e piacevoli, portano la gonna lunga con gran disinvoltura. L' aderenza del tessuto, seta e cotone lavorati insieme a telaio, delineano le forme di corpi magri ed esili, ma tonici.


Spesso tra il guidatore e la donna c’e un bimbo, guarda sempre verso il minibus mentre sorpassiamo, altre volte dorme, quando sono due, il bimbo più grande sta davanti al guidatore, padre o madre che sia, lo sguardo dritto contro il vento, la frangetta che svolazza, le guanciotte lisce. Oggi ho visto due donne in moto, quella dietro teneva il suo piccolo addormentato seduto in grembo, l’altra guidava con una mano e con l’altra reggeva il suo  bimbo che dormiva come fosse in una culla. Con che serenità affrontano la strada, tranquille, normali.


I birmani guidano sempre con una mano sola, magari con l’altra portano solo un pezzo di cavo elettrico, ma lo tengono in mano. Magari portano un pezzo di lamiera ingombrante. E riescono anche a suonare per avvisare chi gli sta davanti che stanno arrivando. Mi piacciono i giovani, le coppie, che viaggiano in motorino con i loro profili bellissimi, la pelle scura, le labbra ben disegnate, se mentre li superiamo si girano verso il minibus e incrociano il mio sguardo mi sorridono sempre, spesso mi salutano con la mano, e guardo i loro sguardi timidi, le loro bocche allargarsi in sorrisi.


Ascolto la musica viaggiando, non per estraniarmi, ma per aggiungere intensità a quello che catturano i miei occhi, a volte, quando un pezzo è particolarmente adatto al momento, mi viene un po’ di magone, ma di quello bello, quello che mi prendeva da adolescente, quando nei pomeriggi d’estate, mi perdevo nei miei pensieri, sul poggiolo di camera mia in campagna. Quello che dentro ti fa sentire felice di essere al mondo.


Superiamo una giovane coppia, lui sta ridendo con la bocca e con gli occhi, lei, seduta dietro, ha un bel sorriso, viene da sorridere anche a me, sorrido della loro bellezza. Questa gente è allegra, non so se dire felice è corretto, ma è proprio quello che sembra. A volte mi viene da pensare che un po’ li invidio e che quando torneró a casa ci vorrà così poco per tornare alla normalità, quando mi piacerebbe che la normalitá fosse questa. Non più di 5 giorni fa, sul battello di ritorno da Mingun parlavo con un ragazzo israeliano che da 2 anni vive a Yangon, dentro di me mi chiedevo perché mai avesse deciso di vivere qui, come potesse affrontare la differenza abissale tra Tel Aviv e la Birmania.


Ora capisco, è questa felicità del niente che ti colpisce. Certo non è facile digerire la povertà, l’arretratezza, l’incuria, la spazzatura, ma per contro, anche le lamentele continue, i soprusi, l’ignoranza e la cattiveria gratuita non sono semplici da mandare giù.  Sarà il buddismo, dicono alcuni, il fatto è  che noi stranieri, ci ritroviamo spesso a parlare del popolo che ci ospita,  con l’incredulita tipica di chi non capisce come si faccia ad essere felici con niente.


E questo deve per forza voler dire qualcosa. Questa gente ci sorride, ci accoglie, ci fa stare comodi. A Monywa ho fermato un mototaxi per strada, non parlava una parola di inglese, abbiamo battagliato sul prezzo, la sua voce graffiante grattava la gola quando intuivo lamentasse la mia proposta troppo bassa, lui voleva 10.000 kyats e io volevo dargliene 6.000, ci siamo accordati su 7.000, masticava la sua foglia di betel, e di tanto in tanto sputava sul selciato, lasciando quelle macchia rosse che il primo giorno, preoccupatissima, avevo scambiato per sangue.


Mi ha portato a visitare un gran tempio indiano, stracolmo di Buddha e colori. Siamo rimasti senza benzina per circa un centinaio di metri, ho passeggiato in mezzo ad una foresta di 1000 bodhi, con Ming In, una bimba che vende cartoline, con le guance ricoperte di thanaka, la crema naturale ricavata dalla corteccia degli alberi. Sulla collina é apparso il grande Buddha, ci sono entrata dentro con il mio accompagnatore locale e mi sembrava di essere una celebrità, quando non una divinità!


Tutti quelli che mi incontravano lungo le scale avevano uno sguardo sorpreso e ammirato, come se tutti avessero voluto essermi amici. Molti mi hanno chiesto una foto insieme e io avrei voluto saper fare il sorriso più bello, come fanno gli americani.



Mentre scendevamo i gradoni di cemento delimitati dalle bancarelle, le venditrici mi salutavano, mi sorridevano, mi guardavano, una vecchia signora ha allungato la mano verso la mia e ci siamo strette i palmi con grande calore, il suo viso era pieno d’amore, l’apice l’ho raggiunto quando subito dopo, una madre seduta sui gradini, ha preso il figlio sotto le braccia e lo ha allungato verso di me, perché lo toccassi. Mi sono sentita miracolosa e portatrice di luce, e il mio ego ha fatto un balzo in alto..



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