domenica 25 novembre 2018

Saigon e gli orrori della guerra



23-24/11/2018
Mi preparo con calma e alle 11:45 uno shuttle bus mi porta alla stazione, da cui parte il mio sleeping bus per Saigon. Viaggiare sdraiati è molto comodo e ti permette di appisolarti di tanto in tanto, quando i panorami non sono interessanti. Entro le prime due ore arriviamo a Bao Loc, dove ci fermiamo per mangiare qualcosa. Poi sono altre 5 ore, di cui l’ultima nel traffico della periferia per raggiungere il centro città. Prima di vedere da lontano le luci della grande Saigon, passiamo in mezzo a svariati villaggi, tra cui uno particolarmente devoto a cristi e madonne, che espongono statuette di circa un metro di altezza, sulle balaustre delle case a due piani. Tutti rigorosamente fronte strada, con le braccia aperte e le aureole in testa.


La quantità di chiese pro capite è imbarazzante. Ogni isolato ne ha una, e queste, sono solo quelle che posso registrare io, passando lungo la strada principale! Finalmente arriviamo a destinazione e si capisce subito che Saigon è il gran “bordello” del Vietnam: luci festose, grandi locali, musica spacca timpani, insegne di birra che attirano i giovani scapestrati in cerca di sbronze e di qualcuno che gli sfili il portafogli. Per fortuna il mio ostello è a 100 metri dalla fermata del bus e si trova in una stradina interna, silenziosa ed estranea al delirio.
Esco giusto per un paio di Tacos a fianco al mio ostello e mi rifugio in camera, anche perché la strada pedonale, con tanto di luminaria che lo attesta, è in realtà trafficata come le altre, perciò non è di mio interesse.


La mattina dopo mi alzo e noto che il cielo sta dando le prime avvisaglie di pioggia, anche se in realtà  sono spruzzi sporadici che durano pochi minuti e rendono le temperature più umane. Parto alla ricerca di una lavanderia, ho un alterco con un gayssimo lavandaio, che non vuole farmi il bucato perché non è felice, del fatto che mi rifiuti di considerare che 2kg è 100 gr. rientrino nella cifra dei 3 kg e non dei 2. Con la complicità di una sgamata donna vietnamita, che ripudia l’atteggiamento approfittatorio nei confronti degli stranieri, cerchiamo di fregarlo, facendo consegnare a lei i miei panni sporchi, ma quello riconosce la borsa e per tutta risposta, schecca di brutto e ci tira la borsa dietro! Trovo un’altra lavandaia più simpatica a cui lasciare la mia roba, così posso andarmene a spasso col naso in su a vedere cosa ha da offrire Saigon. L’itinerario classico prevede la Chiesa di Notre Dame, il vicino ufficio postale, che è più che altro un ricettacolo di souvenir, il palazzo della riunificazione e il teatro dell’ opera, tutte strutture di stampo occidentale, lascito dell’architettura francese di epoca coloniale.



Se Hanoi domina il Nord del paese, Saigon è il puro sud, una antica , e l’altra relativamente moderna. Mentre Hanoi è tradizionalmente conservatrice, Saigon è molto più disposta ad abbracciare nuove tendenze e costumi. E forse questo suo dinamismo, giovinezza  e sguardo rivolto alle novità, la rendono il luogo perfetto per cene luculliane, shopping e divertimento, ma possiede molto meno interesse storico e culturale rispetto alla vecchia Hanoi.
Alle 15 arrivo al museo dei residuati bellici, che è poi il motivo per cui sono a Saigon.


Seguo la visita procedendo per ordine, quindi salgo al secondo piano dove c’è la stanza 1, dove vengono narrati i fatti: le cause del conflitto per liberare il paese dall’oppressione francese, l’intervento americano in aiuto a quest’ultima, la macchinazione degli Stati Uniti per dividere il paese, instaurando un governo fantoccio per combattere il comunismo, il falso attacco che il Presidente Johnson utilizzó come casus belli per dare il via alla guerra, conosciuto con il nome di “incidente del Golfo del Tonchino” in cui gli americani dichiararono di essere stati attaccati da 3 torpediniere nordvietnamite, mentre erano in ricognizione segreta e di aver risposto al fuoco.


In aiuto intervennero 4 crusader che a colpi di razzi ne annientarono una. Due giorni dopo dissero di aver captato l’intenzione delle rimanenti flotte nemiche di passare al contrattacco e le silurarono, quando le successive ricerche ufficiali, stabilirono con assoluta certezza, che neanche il secondo attacco nordvietnamita si era mai verificato.


La stanza numero due si chiama Requiem e contiene interessanti prove fotografiche dell’orrore della guerra, immortalate dalle attrezzature di fotografi vietnamiti, francesi e americani che non hanno più fatto ritorno a casa, come Robert Capa e Dana Stone. Le stanze si susseguono, le immagini sono forti e lo stomaco è stretto in una morsa. Ci sono gli ingrandimenti di grandi giornali, come life, che riportano foto a colori  e articoli su quello che succedeva in Vietnam, una guerra troppo vicina per non fare paura.


Un’intera sezione è dedicata alle conseguenze dell’ utilizzo del defoliante Agente Orange, con cui gli americani hanno irrorato per anni il paese, conseguenze che non si sono solo accanite sull’ambiente, ma sulle persone e sulle future generazioni, con malformazioni fisiche e mentali di ogni tipo. Le foto sono dolorose e inquietanti. Anche quelle che mostrano una natura arida e secca, rasa al suolo, uno scenario post apocalittico che per fortuna si è ripreso.


Ma le date delle nascite di bambini deformi sono ancora troppi attuali. La stanza dedicata ai crimini di guerra è aberrante, un sunto difficile da guardare sulle crudeltà immortalate a vita sulle pellicole dei fotografi, in cui la bassezza dell’essere umano non ha vergogna a mostrarsi sorridente davanti ai suoi trofei. Alcune immagini riportano i commenti dei reporter che le hanno scattate, aggiungendo, se possibile ancora più orrore a quel che non c’è bisogno di immaginare.


Le sale sono immerse nel silenzio, l’orrore riesce a zittire chiunque, come silenziosi devono essere rimasti a lungo i villaggi prescelti per l’operazione Search and Destroy, per la quale non è necessaria la traduzione nè l’approfondimento.
Me ne vado dopo tre ore, quando i carri armati all’esterno non fanno che provocarmi fastidio e timore, tanto quanto gli enormi velivoli posizionati nel piazzale antistante il Museo. L’unica punta di leggerezza me la regala un gatto, che si toeletta sui cingoli di un tank americano, il resto sono memorie nate oggi è che mai più mi lasceranno, anche se mi auguro di cuore di non viverle mai in prima persona.






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