domenica 11 novembre 2018

Dmz la zona demilitarizzata che divide il Vietnam a metà, i tunnel di Vinh Moc e gli americani che persero la guerra



09/11/2018
Per ovviare al mal tempo, raggiungo Dong Ha in autobus anziché farmi venire a prendere in moto, come previsto dal programma del mio tour privato. Alle 9 quindi, trovo ad aspettarmi alla fermata del bus, Quong, il mio accompagnatore, che mi guiderà in questa avventura dentro la guerra del Vietnam.
Mi rendo conto subito che io e lui avremo qualche problema di comunicazione, nonostante la sua vasta conoscenza sul tema, perché  la sua pronuncia stentata mi permetterà di afferrare meno della metà dell’intera conversazione.


Partiamo subito verso il centro informativo sulle mine antiuomo. Impiego circa 15 minuti per capire che mi sta dicendo che la strada su cui noi ora stiamo viaggiando era la pista di decollo degli aerei militari..certo che se per dire plane dici plant, io penso che mi parli di alberi, che ne so, tipo  “una volta qui era tutta campagna”, per esempio!  (In effetti qui una volta era davvero tutta foresta, ci sono voluti anni perché la vegetazione si riprendesse, dopo i terribili effetti del defoliante agente orange usato dagli americani!) Al museo un grafico mostra l’enorme quantità di ordigni sotterrati. Molti giacciono ancora sotto la superficie addormentati, tanti hanno strappato la vita a bambini e contadini che qui nei villaggi vivono di agricoltura e pastorizia. Tremende le testimonianze fotografiche, e ancor di più le centinaia di gambe e braccia artificiali raccolte in un angolo. Ci sono poi le mother bomb che venivano sganciate dagli aerei, che aprendosi disseminavano sui terreni le baby bomb, spesso inesplose e raccolte dai bambini che le scambiavano per giocattoli, con conseguenze fatali.


Ci spostiamo poi verso la collina dove prima i francesi e poi gli americani costruirono una base di avvistamento sulla Dmz, la zona demilitarizzata che fungeva da spartiacque neutrale tra i territori del nord e quelli del sud. In realtà, mi spiega Quong, la zona non sarà davvero inaccessibile, ma  verrà comunque usata dai pastori per far pascolare i loro bufali, in quell’atteggiamento incurante e incosciente che pare tipico dei vietnamiti.
Facciamo ancora un po’ di strada in moto, che come ho anticipato è l’unico mezzo contemplato per i tour singoli, finché arriviamo al famoso ponte che divide il Vietnam del nord da quello del sud, è pitturato di due differenti colori e proprio la metà è delimitata da una linea bianca.


Da sud una scultura rappresenta una moglie e una figlia che guardano a nord, sperando nel ritorno del marito. Anche i genitori di Quong hanno subito la stessa sorte, e quando lui ha chiesto il motivo di questa separazione, la risposta è stata quella classica delle decisioni prese durante una guerra: non si poteva fare altrimenti. Affondo con gli scarponi nel fango per arrivare ad attraversare il ponte.
Finalmente partiamo verso i Tunnel di Vinh Moc, 40 km più a nord, la zona su cui sono state scaricate più tonnellate di bombe qui in Vietnam, si dice 7 tonnellate per persona tra il 1967 e il 72! Per sfuggire a questo massiccio bombardamento, gli abitanti dei villaggi hanno scavato due km di tunnel sottoterra, a 3 differenti livelli, fino ad arrivare ad una profondità totale di 30 metri.


I tunnel hanno 13 entrate totali, tra nord e sud, che fungono anche da fori di ventilazione, ci sono voluti 2 anni per completarli, ma hanno rappresentato la salvezza per circa 60 famiglie che vivevano nei villaggi circostanti. Gli americani non hanno mai localizzato i tunnel, ne probabilmente sospettato che ci fossero e quando arrivarono nella regione, non trovarono nessuno. Quong dice che la gente si portó persino il legname con cui erano edificate le case per dare maggior sostegno alle gallerie dei tunnel, per evitare che collassassero, soprattutto gli ingressi. Erano presenti stanze di varie dimensioni, una per famiglia, cucine, bagni e persino una sala parto e una sala operatoria.


Ogni ingresso era piantonato da un civile armato, gli ingressi erano poi coperti dalla vegetazione e rimasero sicuri e inattaccati fino alla fine delle ostilità. Quong mi guida per parte del labirintico percorso, con le torce ci facciamo strada tra i cunicoli e ci fermiamo ad osservare le varie stanze dove sono state riprodotte scene di vita comuni. Ben 64 bambini sono nati sottoterra e pare che nessuno abbia perso la vita, grazie al rifugio dei tunnel, che solo una volta rischiarono l’incolumità a causa di una bimba aerea che penetró nel primo livello, ma che fortunatamente non esplose. I foro fu adattato a sfogo di aereazione. Dopo un’ora spesa nelle tenebre riemergiamo di fronte al mare, nella fresca brezza e sotto la pioggia battente.


A nulla serve bardarsi contro gli attacchi del cielo; i 40 km che ci separano dal cimitero nazionale di Dong Ha sono conditi di bestemmie e improperi. Quong continua a condurre il mezzo senza problemi e io cerco di proteggere i miei supporti fotografici. Quando giungiamo a destino sono completamente da strizzare. Facciamo un rapido giro in mezzo alle tombe che portano tutte lo stesso epitaffio. Tutti questi soldati non hanno identità, 300.000 anime senza volto e senza nome giacciono in piccole tombe grigie, costellate di fiori rosa di plastica. Hanno resistito strenuamente, lottato riuniti in gruppi di guerriglia contadina, sfiancato il nemico e sconcertato le dirigenze militari americane che non capivano se era il momento di mollare o insistere.


Le perdite furono ingenti, ma come predisse Ho Chi Minh all’inizio delle ostilità “ McNamara ci ha intimato di smettere di appoggiare la guerriglia comunista sudvietnamita, altrimenti riceveremo più bombe di quante non ne abbiano avute Italia, Germania, Giappone e Corea del Nord messi assieme e questo solo perché gli abbiamo chiesto - se egli si fosse trovato nei nostri panni - se avrebbe accettato un diktat di uno stato straniero che gli vietasse la riunificazione generale. Ebbene, io lo ammonisco che la guerra che verrà sarà dura e che io potrò perdere anche mille uomini per ogni soldato americano caduto, ma l'esito sarà ugualmente quello da me atteso, perché noi vinceremo la guerra e gli Stati Uniti la perderanno". Quando finalmente furono firmati i trattati di pace a Parigi nel 29 gennaio 1973, che misero fine agli scontri e le truppe statunitensi lasciarono il suolo vietnamita, la frase pronunciata dal
primo ministro del Vietnam del Nord fu questa: “ Gli statunitensi non ritornerebbero nemmeno se gli offrissimo delle caramelle...!”






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